I drammatici fatti del 7-9 gennaio a Parigi hanno riacceso l'attenzione dell'opinione pubblica europea sul terrorismo di matrice religiosa che – da ormai quasi tre lustri – colpisce in modo irregolare e con inaudita ferocia obbiettivi civili del mondo occidentale. Forse sottovalutando l'importanza della strage di Atocha (191 civili inermi caduti nel 2004 a seguito di un attentato organizzato dall'organizzazione jihadista "Grupo Islámico Combatiente Marroquí") alcuni commentatori hanno parlato di un "11 settembre europeo", di un momento capace di costituire un vero e proprio tornante nella storia d'Europa.

interreligioso

In realtà, il cortocircuito innestato dal contatto tra fondamentalismo religioso e lotta politica armata è un fenomeno ormai diffuso in larga parte del globo, e le azioni violente di carattere terroristico (rivolte per lo più alla strage di civili) non sono purtroppo un'eccezione, ma il denominatore comune di una serie di realtà geopolitiche caratterizzate dalla presenza di movimenti totalitaristi ispirati ai dogmi, ai principi ed alle norme giuridiche di un determinato credo.

Questo articolo non vuole occuparsi degli strumenti di intelligence e di cooperazione politica internazionale necessari per implementare e migliorare la lotta al terrorismo. Più limitatamente, il nostro scopo è quello di formulare proposte sul piano del diritto interno italiano dirette a governare la deriva delle religioni verso spinte di carattere totalitarista capaci di sfociare in azioni violente. Perchè - come è necessario opporsi con forza alla banale generalizzazione che afferma l'esistenza di religioni o gruppi religiosi intrinsecamente, ontologicamente violenti ed incompatibili senza eccezioni con la democrazia - allo stesso tempo non si può negare la matrice religiosa dell'azione terroristica del 7-9 gennaio: matrice che peraltro caratterizza altri gravi atti di violenza di cui, in questi giorni, abbiamo notizia (si pensi a cosa accade in Nigeria, ad esempio).

Proprio per comprendere come esista un cortocircuito tra totalitarismo religioso e violenza terroristica, e come tale cortocircuito debba essere considerato un'eccezione capace di svilupparsi in contesti geopolitici e georeligiosi molto differenti, e non necessariamente legati alla presenza dell'Islam (paradigmatici sono i casi del fondamentalismo indù, di quello buddista e – seppur con modalità diverse – di quello cristiano), mi pare di grande importanza aumentare la conoscenza della storia e dell'antropologia delle religioni all'interno degli istituti di istruzione.

Per motivi essenzialmente legati alle disposizioni concordatarie, oggi l'insegnamento del fatto religioso nelle scuole è sostanzialmente "appaltato" alla Chiesa cattolica e viene svolto all'interno di corsi "assicurati" ma "facoltativi" ispirati alla dottrina e alla morale cattolica. In questo modo però si ha l'impressione che le giovani generazioni possano rischiare di avere una non sufficiente consapevolezza della natura e delle implicazioni oggettive, laicamente studiate, del fatto religioso, e che pertanto possano perdere una chiave di lettura importante per decodificare ciò che avviene all'interno della realtà. Molto spesso la paura (ovvero l'anticamera del terrore) è figlia dell'ignoranza, della non-conoscenza del diverso, di una serie di informazioni parziali e distorte che pretendono di classificare le religioni in "buone" o "cattive" facendo il copiaincolla su Facebook di brani dei testi sacri avulsi da ogni contesto teologico ed ermeneutico.

Mi chiedo, in particolare, se un nuovo modello di insegnamento della religione nella scuola pubblica non potrebbe modellarsi sui Toledo Principles elaborati dall'OCSE: secondo tale documento «mentre le decisioni concernenti le questioni di fede devono essere protette come scelte personali, nessun sistema educativo può permettersi di ignorare il ruolo delle religioni e delle credenze nella storia e nella cultura. L'ignoranza su questi problemi può alimentare l'intolleranza e la discriminazione e può portare alla formazione di stereotipi negativi». L'insegnamento delle religioni dovrebbe «educa(re) alla conoscenza delle religioni e delle credenze senza promuoverne o denigrarne alcuna; informa(re) gli studenti sulla varietà delle religioni e delle credenze senza conformare o di convertire gli studenti a una particolare religione o credenza».

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Ad una più concreto impegno dell'istruzione pubblica nella diffusione delle conoscenze sul fatto religioso dovrebbe accompagnarsi, quanto meno a mio avviso, una politica diretta a rinforzare la tutela delle libertà individuali e dei diritti civili.

Nella nostra storia passata, il terrorismo politico ha sovente indotto il potere legislativo ad emanare una legislazione emergenziale repressiva ben poco rispettosa dei diritti fondamentali degli individui: questa tendenza si è ripetuta, a livello internazionale, dopo i fatti dell'11 settembre, creando – nel suo apice parossistico – l' "effetto Guantanamo", ovvero la degradazione di alcune categorie di individui da "esseri umani" a "nemici" incapaci di godere delle garanzie sostanziali e processuali generalmente previste dall'ordinamento.

In realtà combattere il terrore con la repressione rischia di creare nuovi cortocircuiti. Ci riferiamo in primo luogo all'aumento del fanatismo tra i "martiri" della causa politico-religiosa, ma soprattutto al rischio di creare quello che Giorgio Agamben definisce uno "stato di emergenza permanente", in cui si legittima una violazione sistematica dei diritti soggettivi degli individui da parte dei poteri pubblici in nome della necessità di garantire la sicurezza pubblica. Rispondere al totalitarismo religioso con il totalitarismo istituzionale rischia di portare ad una restrizione inaccettabile degli spazi di libertà per gli individui, e – soprattutto – può rappresentare per i terroristi un successo della loro strategia. In fondo il terrorismo è un veicolo diretto a scardinare i principi fondamentali su cui si fonda l'ordinamento di uno Stato: quando sia lo stesso Stato democratico a rinunziare volontariamente ai diritti fondamentali e alle garanzie procedurali che ne costituiscono l'ossatura fondamentale, l'azione dei gruppi del terrore può dirsi riuscita per desistenza.

Vale la pena, a questo proposito, spendere qualche parola su quanto la libertà di satira sia centrale in questo discorso. Molte delle vignette pubblicate in questi ultimi anni da Charlie Hebdo sono lontane dal mio stile, dal mio gradimento e dai miei sentimenti: ma credo fermamente che nessun potere pubblico possa arrogarsi il diritto di comprimere, limitare, distruggere la libertà di satira, perché le modalità espressive di quest'ultima rappresentano una delle caratteristiche salienti in cui l'Occidente ha sviluppato la sua libertà di critica contro ogni forma di potere, sia esso temporale o clericale.

La satira, fondandosi sulla caricatura e sull'uso di immagini ed espressioni grottesche, è da sempre uno strumento privilegiato per discutere sull'esercizio del potere: e non può per questo in nessun modo essere repressa, se non attraverso un'inaccettabile diminuzione del ruolo che la libertà di manifestazione del pensiero gioca all'interno del processo di formazione di una mente critica, autonoma, autenticamente dialogica.

Se a mio avviso può e deve ammettersi l'apposizione di limiti alla libertà di espressione derivanti dal divieto di discriminazione e di incitamento all'odio (per cui una manifestazione del pensiero totalmente acritica e capace soltanto di fomentare l'odio e la discriminazione non può a mio avviso– in nome del paradosso popperiano della tolleranza – trovare cittadinanza entro una democrazia fondata sul rispetto dei diritti umani), non può – se non in nome di una vera e propria "desistenza" costituzionale – ammettersi l'apposizione di limiti alla libertà di satira.

Più in generale, ho l'impressione che il cammino verso la garanzia di sempre maggiori spazi di libertà e di autodeterminazione per gli individui sia la migliore forma di reazione al disegno totalitarista dei terroristi: solo aumentando il numero e l'estensione dei diritti di libertà si può creare una consapevolezza diffusa di quanto la possibilità di perseguire il proprio progetto di vita entro i confini del neminem laedere e del suum cuique tribuere sia davvero un bene supremo, irrinunciabile, qualunque sia la fede religiosa che si abbraccia.

Qualunque sia la fede religiosa che si abbraccia: perché, come anticipato in precedenza, non si può fingere che gli attentati terroristici del 7-9 gennaio (come quelli delle Torri Gemelle, di Atocha, e via discorrendo) non abbiano una matrice religiosa, ovvero siano stati determinati dall'impulso soggettivo di realizzare in modo violento, all'interno della società, una supremazia della legge religiosa sulle norme del costituzionalismo.

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Con la necessità di ribadire che tali impulsi sono eccezionali e non rispondono all'ermeneutica generalmente diffusa delle norme coraniche, e che comunque tali impulsi non sono esclusivamente connessi all'Islam, non si può comunque non sollecitare il nostro ordinamento giuridico a farsi carico di un fatto: ossia che – all'interno dei gruppi religiosi che agiscono sul territorio – possono nascere tendenze violente e totalitariste.

Ora, il disegno costituzionale dei rapporti tra Stato e confessioni religiose nasce dall'esigenza di riproporre anche per i culti diversi da quello cattolico il sistema dialogico concordatario. L'art. 8 della nostra Costituzione ha così creato il sistema delle "intese" con le confessioni diverse dalla cattolica per dare a queste ultime una legislazione "concordata", capace di assicurare il rispetto delle specificità di ciascuna di esse e, di conseguenza, una vera e propria "uguaglianza nella libertà". Questo sistema, a quasi settant'anni di distanza dalla sua creazione, ha sperimentato non poche criticità: il moltiplicarsi dei gruppi religiosi e l'impossibilità di stringere intese con ciascuno di essi se non attraverso lo strumento della "federazione" tra entità (fino a che punto?) omogenee; le "intese-fotocopia" utilizzate solo come passpartout per giungere alla ripartizione dell'otto per mille; la non codificazione del procedimento di intesa, che lascia troppe zone di discrezionalità ai pubblici poteri; la mancata sostituzione della legge 1159/1929 – che ancor oggi regola i rapporti tra Stato e confessioni religiose senza intesa – con uno strumento legislativo rispettoso dei principi costituzionali.

Forse è oggi tempo di ripensare il sistema, dando spazio, all'interno della legislazione ecclesiastica il a quanto disposto dal n. 33 della Relazione Sylla sulla situazione dei diritti fondamentali nell'Unione europea: in tale sede si invitano «gli Stati membri e l'UE a favorire il dialogo interreligioso nella misura in cui condanna ogni forma di fanatismo e di integralismo, nonché a garantire il principio della laicità». Secondo questa prospettiva, la dimensione dialogica non deve mirare esclusivamente all'interazione e alla discussione tra i rappresentanti di differenti gruppi confessionali finalizzata alla costruzione della pace, della reciproca comprensione e della mutua tolleranza, ma – come sottolinea il Consiglio d'Europa – dovrebbe spingersi ad incoraggiare le comunità religiose a promuovere attivamente i diritti umani, la democrazia e il primato del diritto in un'Europa multiculturale (Libro bianco sul dialogo interculturale «Vivere insieme in pari dignità»). Tale promozione andrebbe vista in stretta correlazione con la possibilità che le autorità pubbliche aprano canali di comunicazione con i rappresentanti autorizzati di religioni e convinzioni che desiderano essere riconosciute in base al diritto nazionale.

Questo naturalmente implica una valorizzazione della dimensione dialogica a livello protocollare (ad esempio attraverso la concessione dell'Alto Patronato del Capo dello Stato ad iniziative volte a promuovere il dialogo interreligioso), ma anche – de jure condendo –

a) la possibilità di subordinare la stipulazione di un'intesa al fatto che la confessione interessata esprima posizioni non disarmoniche rispetto alla necessità di salvaguardare la democrazia ed i diritti fondamentali dell'individuo;

b) la necessità che il riconoscimento della personalità giuridica per i corpi morali di carattere religioso previsto ex art. 2 della L. 1159/1929 possa essere subordinata ad un impegno statutario esplicito – da parte del gruppo - destinato a realizzarsi nel compimento di attività finalizzate a garantire la pace, la non-violenza, il dialogo tra le diverse visioni del mondo presenti nella società.

Le modalità con le quali il nostro Stato laico può realizzare la valorizzazione del dialogo interreligioso e della non-violenza non sono semplici nell'attuale sistema: certo, esse sarebbero molto più semplici da raggiungere dopo una completa rivoluzione dell'assetto vigente capace di ricondurre la governance di tutti i gruppi religiosi presenti sul territorio ad una legge comune. Ma questa rivoluzione necessita di una volontà politica e di una consapevolezza sociale che ad oggi non mi paiono così forti.