morte ucraina grande

Le parole che utilizziamo per descrivere i fatti rappresentano un orizzonte di senso all’interno dei quali quei fatti si collocano. È ciò che ha fatto e prova a continuare a fare il regime di Putin chiamando “operazione speciale” l’invasione dell’Ucraina su vasta scala iniziata il 24 febbraio 2022; e lo stesso può dirsi rispetto al progressivo slittamento semantico che si registra sui nostri media nei quali la parola aggressione ha lasciato progressivamente il campo a quella di conflitto tra Russia e Ucraina lasciando intendere l’esistenza di due parti una contro l’altra.

E questo accade non solo quando a commentare quel che succede oppure ad esporre una posizione politica sono i sostenitori della necessità di un accordo, senza troppi sé e troppi ma, con la Russia Putin. Anche da parte chi si è schierato al fianco delle istituzioni e del popolo ucraini prende il sopravvento nel linguaggio – e dunque nel senso complessivo che dei fatti si finisce per dare – la constatazione che ci sono due parti in conflitto e che il compito dell’Occidente o meglio il modo attraverso il quale quest’ultimo può e deve difendere l’Ucraina è quello di fare in modo che l’Ucraina possa combattere ad armi pari o almeno meno impari con la Russia.

Tenendo in disparte ogni valutazione se ciò sia tecnicamente possibile, riconoscere all’Ucraina il ruolo del cobelligerante, sollecitati a far questo anche dalla tenacia e dalla resistenza che il popolo e le istituzioni ucraini stanno mostrando, può finire per mettere in ombra il fatto che ciò che è in corso è un atto di aggressione. E qui viene in soccorso cosa ed in che modo vada inteso detto crimine per il diritto e per gli organismi internazionali. Una ricognizione degli elementi di diritto e dei pronunciamenti sull’argomento è rinvenibile nella Risoluzione che il Parlamento Europeo ha recentemente adottato sull'istituzione di un tribunale che si occupi del crimine di aggressione contro l'Ucraina.

Nel testo viene dapprima ricordato quanto statuito nella risoluzione n. 3314 (XXIX) dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottata il 14 dicembre 1974 secondo la quale l'aggressione va considerata come "l'uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato o in qualunque altra maniera incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite" e afferma che "una guerra di aggressione costituisce un crimine contro la pace internazionale" e che “l'aggressione dà luogo alla responsabilità internazionale”.

Questo concetto è ribadito nell'articolo 8-bis dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale secondo il quale, tra le altre cose, l’atto di aggressione – inteso come l'uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato o in qualunque altra maniera incompatibile con la Carta delle Nazioni Unite – va considerato come “un grave crimine internazionale, in particolare nel contesto del possibile uso di tutti i tipi di armi di distruzione di massa che comportano conseguenze catastrofiche per la pace e i mezzi di sussistenza umani nel mondo, nonché danni gravi e a lungo termine all'ambiente naturale e al clima”.

Nel richiamare tutti i riferimenti necessari alla base di quanto ha poi deliberato, il Parlamento Europeo ha ricordato anche come nella causa Barcelona Traction, la Corte internazionale di Giustizia abbia indicato che “gli obblighi derivanti dal divieto di atti di aggressione sono obblighi nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso e non nei confronti dei singoli Stati”.

Se ne può dedurre il fatto che il crimine di aggressione, pur implicando necessariamente la presenza di uno stato aggredito, va al di là del rapporto, necessariamente conflittuale e bellico, tra due parti, ma riguarda e chiama in causa la comunità internazionale; quello che la Russia viola proditoriamente è un obbligo nei confronti della comunità internazionale abusando della posizione di privilegio derivante non solo dal possesso dell’arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica, ma anche dal fatto di essere membro con potere di veto all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Quell’organismo cui spetta vigilare sul rispetto dell’ordine internazionale e nello specifico su gravi violazioni di quest’ultimo quale va considerato il crimine di aggressione.

È infatti al Consiglio di Sicurezza che la Carta delle Nazioni Unite, all’art. 51, affida il compito di prendere le misure necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale; ed è quello stesso fondamentale articolo della Carta dell’ONU a salvaguardare non solo il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, ma anche, ed in modo reciproco, “il potere ed il compito spettanti (…) al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.

Ed è sempre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ad avere un ruolo fondamentale perché l’azione giurisdizionale della Corte Penale Internazionale possa essere efficacemente attivata nel caso in cui un eventuale crimine rispetto al quale ritiene di dover indagare abbia avuto luogo in un paese che ha ratificato lo Statuto di Roma e le modifiche apportate a quest’ultimo in fatto di crimine di aggressione a Kampala, ovvero che abbia dichiarato di accettarne la giurisdizione.

Tornando al discorso iniziale, dunque, si può concludere che lungi dal poter essere equiparato all’osceno e strumentale tentativo del regime di Putin di scambiare un’aggressione militare nei confronti di uno stato confinante come “un’operazione speciale”, il progressivo e sempre più pervasivo e sistematico ricorso al termine di “guerra”, “conflitto tra Russia e Ucraina” rischia di essere comunque pernicioso. Può infatti portare l’opinione pubblica non tanto a perdere di vista il fatto che esista un paese aggredito, quanto piuttosto a rimuovere l’esistenza di un ruolo e di una responsabilità di chi custodisce l’ordine internazionale che consiste nel fermare l’aggressione e ristabilire la pace e la sicurezza internazionale, prima ancora che nel fornire assistenza umanitaria e militare allo Stato che è stato aggredito.

Parlare di guerra e della necessità di mettere uno dei due belligeranti nelle condizioni di difendersi rischia di mettere pericolosamente in secondo piano la constatazione che siamo di fronte ad un’aggressione e ad una violazione delle regole del diritto internazionale e dei diritti umani riconosciuti anche agli ucraini, rispetto alle quali sussiste, come segnalato in base a quanto stabilito dalla carte e dalle regole internazionali, in prima (e potenzialmente esclusiva) battuta, l’obbligo di fermare chi le ha ordite e le porta avanti.

Riaffermare questo assunto non impedisce, ovviamente, di considerare necessaria e praticabile la strada intrapresa che è quella dell’assistenza e del sostegno anche militari allo Stato aggredito. Ma obbliga a misurare e considerarli come un rimedio non solo rispetto all’aggressione della Russia ma anche rispetto al fatto che non vengano attivati e/o non siano concretamente disponibili strumenti che rendano effettivamente vincolanti gli obblighi che ogni Stato ha nei confronti della comunità internazionale nel suo complesso.

Allo stesso tempo la giusta definizione di quel che accade impone di confrontarsi con la questione dell’assistenza militare all’Ucraina non solo e non tanto come sembra prevalere in queste ultime settimane come una sorta di corsa a chi è più “generoso” e/o a chi fornisce l’arma che di volta in volta può sembrare quella decisiva per la gestione del conflitto (prima i sistemi antimissilistici ora i carri armati), ma guardando all’efficacia di quell’aiuto rispetto all’obiettivo che deve essere raggiunto in questo modo, che è quello di fermare l’aggressione (ristabilire la pace e l’ordine internazionale ed impedire che i diritti umani fondamentali di chi vive in Ucraina continuino ad essere negati), e non di aiutare a resistere ad essa.

Riferirsi a quel che accade come un atto di aggressione e non un conflitto tra due Stati porta con sé sia la l'esigenza di sgombrare dall’orizzonte la possibilità di ritenere la Russia di Putin un interlocutore al quale offrire un’alternativa all’incriminazione davanti alla Corte Penale Internazionale o riconoscere il diritto di stabilire condizioni negoziali, sia la necessità di considerare nuovamente necessaria e non più rinviabile una riflessione sulle modalità attraverso le quali la comunità internazionale possa riconquistare la capacità di agire nei confronti degli Stati che scelgono di commettere crimini di aggressione. Essi - ripeto - sono violazioni di obblighi che questi ultimi hanno contratto nei confronti della comunità internazionale e dunque nei confronti di tutte le persone che affidano alle sue regole la difesa dei diritti umani universali.

Insomma, finire un po’ tutti per parlare di “conflitto” per designare l’aggressione russa, significa che Putin, il quale sta perdendo posizioni sul campo, purtroppo sta vincendo la guerra delle parole e dei significati su questa sfida all'ordine e ai principi dello stato di diritto internazionale.