sonia alvisi grande

Sonia Alvisi, coordinatrice Dem di Rimini, si è dimessa in seguito alle polemiche scoppiate dopo le sue dichiarazioni rilasciate a margine della nota vicenda delle molestie durante il raduno degli alpini. La sua colpa è stata quella di aver invitato le donne a rivolgersi all’Autorità competente per denunciare le violenze subite, tenendo presente che "la responsabilità penale è individuale" e che pertanto "occorre evitare di incrementare un clima di polemica generalista e qualunquista che getta un inaccettabile discredito verso l'intero corpo degli Alpini”.

Sembrano frasi banali, scontate, di buon senso. Alcuni potrebbero ritenerle sotto certi aspetti discutibili, certamente non un'aberrazione. E invece proprio quelle frasi hanno generato un curioso cortocircuito: Sonia Alvisi, consigliera regionale di Parità, da sempre in prima linea per la difesa dei diritti delle lavoratrici che hanno subito una discriminazione di genere sui luoghi di lavoro, dall'oggi al domani è stata etichettata come una "nemica delle donne". Alcuni la hanno persino rimproverata di essere "succube della mentalità maschilista e patriarcale che riduce la donna a mero oggetto sessuale". Due decenni di lotte e di impegno di Sonia Alvisi al fianco delle donne buttati al macero per una frase mal interpretata. Siamo oltre il ridicolo.

Il caso di Sonia Alvisi ricorda per certi aspetti quello di David Shor negli USA. Nella prima settimana di proteste dopo l'uccisione di George Floyd, alcune delle quali portate avanti con estrema violenza, l'analista politico progressista David Shor, allora impiegato da Civis Analytics, ha twittato un collegamento a uno studio che mostrava che le proteste violente negli anni '60 avevano portato ad una battuta d'arresto elettorale per i Democratici. Shor stava chiaramente cercando di essere d'aiuto alla sua parte politica (il Partito Democratico), ma nell'indignazione che ne seguì fu accusato di essere un "razzista anti-nero" e dopo poco fu licenziato e perse il posto di lavoro (anche se Civis Analytics ha negato che il tweet abbia portato al licenziamento di Shor).

Il caso Shor è diventato tristemente famoso, ma su Twitter e in genere sui social media abbiamo già visto dozzine di altri esempi che insegnano una lezione elementare: non mettere mai in discussione le convinzioni, le politiche o le azioni della tua parte. Potresti bruciarti. Come scrive Edward Luce nel suo bellissimo "Il tramonto del liberalismo occidentale", sempre più le parole usate nel dibattito pubblico tradiscono una incorreggibile tendenza a presentare l'ultima svolta del pensiero liberale come se fosse una verità autoevidente: "Negli USA, quando Obama minacciò di far perdere i fondi federali a quelle scuole che non avessero garantito agli studenti l'accesso ai bagni corrispondenti alla loro identità di genere, coloro che si opposero alla direttiva vennero etichettati come transfobici. Eppure nessuno, fino a qualche anno fa, aveva pensato di garantire un diritto simile. Fino ad allora non era una verità autoevidente?".

L'accusa più frequente che viene mossa contro le persone che non sono d'accordo con una determinata narrativa dominante non è "traditore", ma è "razzista", "transfobo", "antifemminista" o qualche altra lettera scarlatta correlata che indica il reprobo come uno che odia o danneggia un gruppo emarginato. Sui social media questo modo di sentire, secondo gli analisti più provveduti, "è svalutato da una inflazione rampante". La punizione che sembra giusta per tali crimini non è più l'esecuzione. E' la vergogna pubblica e la morte sociale.

Tutto ciò è notevolmente aggravato dal fatto che ormai il dibattito politico sta diventando sempre più ridicolo e disfunzionale, il che sta accadendo non perché improvvisamente siamo diventati tutti più stupidi, ma per motivi "strutturali". La nuova onnipresenza delle piattaforme digitali "con maggiore viralità" (la dinamica tossica innescata dai pulsanti "Mi piace" e "Condividi", diventati rapidamente funzionalità standard nella maggior parte delle piattaforme) fa sì che una singola parola, anche se pronunciata con intento positivo, può portare a una improvvisa "tempesta di fango" sui social media, innescando il licenziamento immediato o la fine della carriera per chi l'ha pronunciata. Con l'ovvia conseguenza che oramai un po' a tutti i livelli, ma soprattutto in politica, molti hanno iniziato ad autocensurarsi in misura malsana evitando di muovere la benché minima critica o polemica nei confronti di tesi, concetti o opinioni da loro ritenuti mal supportati o sbagliati.

Nella misura in cui la discussione pubblica, in Italia come altrove, risulta pesantemente condizionata dalle nuove piattaforme digitali - che come sappiamo sono state progettate quasi perfettamente per far emergere il nostro io più moralista e meno riflessivo - il volume dell'indignazione presente in ogni ambito di discussione, anche in quello più innocuo e banale, non può che aumentare costantemente, fino a diventare letteralmente sconcertante. Oggi a farne le spese è stata la povera Sonia Alvisi. Ma non sarà certo l'ultima.