La velocità dei fatti enormi davanti a noi rende impossibile un discorso completo e coerente: le questioni sul tappeto sono, semplicemente, troppe. Ma discutere un aspetto alla volta (come molti stanno facendo, a volte con intuizioni profonde e spesso con lucidità) ci fa smarrire il quadro complessivo e l’occasione di avviare un cambio di paradigma: ripetere che “non si può sprecare una crisi” non serve, se buttiamo via la terza opportunità in un quindicennio (dopo la crisi finanziaria nata nel 2007 e la pandemia). Usciamo dal pantano in cui siamo, saliamo sul punto più alto nei paraggi e osserviamo la strada, fino a dove si spinge lo sguardo, indietro e avanti; individuare il percorso dal 1989 a oggi purtroppo sarà più facile che tracciare una via d’uscita, per non finire in punti pericolosi o vicoli ciechi.

Richiamando Donald Rumsfeld, servono una percezione dei known unknowns (ciò che sappiamo di non sapere) e un qualche tipo di bussola politico-filosofica, che davanti agli unknown unknowns (ciò che non sappiamo di non sapere) eviti di farci perdere del tutto il sentiero. Non ne usciremo infatti (tantomeno “migliori”) senza capire che siamo in svantaggio davanti a sistemi illiberali e pericolosi soprattutto per nostre responsabilità nella gestione degli eventi dalla caduta del Muro: errori però molto diversi da quelli imputati  all’Occidente da Putin e da opinioni pubbliche smarrite. Fraintendere il significato e il modo di operare di una vera leadership, dimenticare le lezioni della Storia, e accettare uno storytelling spesso privo di realismo ma consolatorio, moralmente accettabile e che dava una copertura al nostro smarrimento strategico e politico: queste sono le nostre vere colpe, ma come diceva Fermat  “ho una meravigliosa dimostrazione di questo teorema, che non entra nel margine stretto della pagina”.

Ci sono comunque due semi di speranza da coltivare: il primo è che davanti ai pericoli più gravi noi europei stiamo trovando una coesione e una velocità di reazione che non ha uguali nei trent’anni precedenti. Prima la Brexit, poi la pandemia e ora la crisi ucraina hanno dimostrato un’unità che era mancata davanti alla dissoluzione jugoslava, alle guerre in Medio Oriente, alla crisi finanziaria, alle migrazioni dall’Africa. Il secondo è veramente insperato: siamo molto più forti di quanto abbiamo creduto. Come l’eroe delle fiabe, quando tutto sembrava perduto abbiamo visto il potere nelle nostre mani concentrarsi e fluire, colpendo l’avversario con un’energia e una rapidità che lo ha tramortito: a buon diritto Lukashenko ha potuto dire “alcune sanzioni sono peggio di una guerra”; e armare la resistenza ucraina con fondi europei è un altro tabù caduto, le cui implicazioni sono potenzialmente enormi. Su questo peraltro non si sa se i leader dell’UE siano davvero consapevoli delle possibili conseguenze, positive e negative: nell'immediato non è importante, ma presto diventerà fondamentale che ci ragionino.

Il punto delle nostre attuali difficoltà infatti è che questa catena di eventi positivi è figlia soprattutto dell’azzardata scelta di Putin, e non deriva dalla nostra (inesistente) capacità di conseguire posizioni di vantaggio. Siamo stati bravi e veloci a reagire alla Brexit, alla pandemia, alla crisi economica e ora nella risposta in Ucraina: ma non siamo quasi mai in grado di scegliere il terreno di gioco. La frenata tedesca di dieci giorni fa nell’applicare le sanzioni e fornire armi non è incomprensibile, né irrazionale: se la Russia non avesse scelto all’improvviso di bruciarsi il terreno intorno, la tentazione di salvare la faccia ma tornare prima possibile al business as usual probabilmente avrebbe avuto la meglio in diversi governi e opinioni pubbliche, come è già accaduto molte volte. In altre parole: quella occidentale di questi anni è capacità tattica, non visione strategica, ed è quest’ultima la vera carta che ha in mano chi sta a Mosca e a Pechino.

Una carta che noi stessi abbiamo buttato sul tavolo, lasciandola a loro dopo averla tenuta con feroce determinazione per quasi 500 anni di dominio sul mondo; ma sono stati appunto troppi gli errori e gli sbagli politici e militari accumulati nel trentennio passato, già analizzati tante volte in dettaglio, che hanno prodotto quel “tramonto dell’Occidente” e quell’ascesa di Cina e Russia che tanto ci preoccupano. Quasi sempre questi errori si possono far risalire senza fatica alla nostra mancanza di (buone) idee strategiche: come se le picconate al Muro avessero distrutto la capacità occidentale di pensare correttamente un proprio ruolo. E infatti siamo orfani della speranza che avesse ragione Fukuyama, e torto Hobsbawm: la Storia è finita, andate in pace (a commerciare, s’intende); c'è anche l’effetto di una certa stanchezza occidentale da raggiunta sazietà, sulla quale non mi soffermo.

In Occidente alla fine del secolo scorso abbiamo dunque goduto e sprecato una pace che nel resto del mondo non si è vista; poi dall’inizio del XXI secolo solo due vere teorie sono uscite dalla testa degli USA, ed entrambe sono state imposte agli europei recalcitranti: quella neo-con dell’esportazione della democrazia nel primo decennio, fallita nei deserti del Medio Oriente, e quella di Obama del “pivot to Asia” (che sembra un po’ in difficoltà) in quello successivo. Di qua dell’Atlantico abbiamo preferito continuare a godere dell’ombrello sempre più sbrindellato fornito dagli USA, concentrandoci sulle nostre economie più o meno esangui, invece di pensare a cosa stava succedendo sulla porta di casa e oltre.

Torniamo ora al presente, per guardare verso il futuro con un po’ di consapevolezza in più. Ci serve una visione strategica, ma non è qualcosa che si compra in Borsa, tantomeno può essere presa in prestito qualche idea dagli esperti di geopolitica: è una cosa che richiede chiarezza di pensiero e consapevolezza di sé, ma soprattutto tempo. E qui veniamo alla seconda questione centrale: l’importanza dei tempi lunghi nell’azione politica, che Putin e Xi Jinping fino a oggi hanno dimostrato di saper controllare e gestire molto meglio di noi. Se rileggiamo oggi le notizie di politica estera dai tempi dell’ascesa di Putin, vediamo la costanza con cui Russia e Cina hanno perseguito i propri obiettivi e la sfacciataggine con cui li hanno affermati pubblicamente, grazie alla volontaria cecità e sordità delle diplomazie e delle opinioni pubbliche occidentali. Qui sta il terzo e ultimo punto che mi preme sollevare, e che in realtà è la premessa a qualsiasi reale cambiamento: anche noi occidentali abbiamo le nostre narrative “di comodo”, e bisogna dire che sono spesso così ingenue da diventare per noi più pericolose di quelle di Putin, perché venendo da dentro di noi tendiamo a non metterle veramente in discussione e sono “comode” più che “di comodo”.

Per esempio sulla difficoltà dello scontro tra democrazie e autocrazie, con le prime preoccupate del consenso elettorale e le seconde che possono invece silenziare e manipolare la propria opinione pubblica attraverso il controllo sui media: una storiella buona solo per scusare l’incapacità delle nostre classi dirigenti. Non si capirebbe altrimenti il rischio che corrono ogni giorno decine di milioni di persone che sfidano il potere violento dei propri governi, mettendo in gioco la vita in nome della libertà: e non si capirebbe come mai oggi le tirannie hanno così paura della democrazia da soffocare ogni minimo tentativo di dissenso e di apertura, dentro e fuori i propri confini. La verità è che non siamo stati più in grado di capire, di apprezzare il valore e la portata di quello che è il nostro mondo: ne vediamo tutti i limiti e le ipocrisie dall’interno, ma non l’attrazione che genera in chi ne è escluso.

Un’altra “favola della buonanotte” è quella delle democrazie condannate a messaggi e proposte di breve periodo dalla ricerca del consenso: come se dal 1945 al 1989 (a parte l’Italia) l’Occidente non avesse visto un’alternanza di progressisti e conservatori, ma con una coerenza dell’orientamento strategico e un’alleanza militare che si è rivelata solidissima, e che è stata tra i fattori della vittoria contro il sistema sovietico. La fine delle ideologie è stata quindi un’altra illusione, come quella di vivere alla fine della Storia: in realtà la nostra ideologia di pace, benessere, diritti e libertà ha trovato in noi dei pigri e ipercritici utilizzatori, incapaci di estendere ad altri le nostre conquiste ma pronti a giustificare i nostri fallimenti e le nostre mancanze con scuse puerili.

E infine, nostra maxima culpa, l’idea (che non ha avuto presa sugli anglosassoni) di vivere in un mondo in cui il diritto (internazionale e non) abbia valore a prescindere dalla forza che lo impone: questa è un’incomprensibile rinuncia a secoli di riflessioni filosofiche e politiche europee. Gettando via Machiavelli e Hobbes, dimenticando Kant e il Manifesto di Ventotene, abbiamo giudicato la guerra una roba da barbari incivili, un arnese del passato invece che uno degli strumenti ancora disponibili (e tra i più efficaci) per chi ha fame di potere, o di soldi: e con quelli che ci avevano detto e dimostrato la lora fame abbiamo continuato a fare affari, perché ci raccontavamo che pecunia non olet, e “dove non passano le merci, passeranno gli eserciti” .

Se quanto detto fin qui è vero, allora è necessario pensare al più presto alcuni punti su cui bisogna concentrare l’attenzione d’ora in avanti: ipotizzando che la guerra non potrà che finire con la sconfitta dei nostri avversari (perché l’unico modo che avrebbero per evitare quest’esito mi pare sia la mutua distruzione in un conflitto nucleare), ne usciremmo infatti con un mondo rivoluzionato più che al termine della guerra fredda ma non ancora in pace. Resta una lunga lista di minacce irrisolte, a partire dal terrorismo nichilista che oggi è solo in letargo (e contro il quale non potremo applicare sanzioni e strumenti di diplomazia internazionale), continuando con la crisi climatica e ambientale, e le condizioni di sottosviluppo e disuguaglianza in cui ancora vivono grandi porzioni dell’umanità. Sta a noi, con un po’ di consapevolezza e di fiducia in noi stessi, affrontare le sfide titaniche che la Storia ci ha messo davanti.