biden big 

L’affermazione di Joe Biden apre una nuova strada per i democratici non solo negli Stati Uniti.
La vittoria del Centrosinistra attraverso proposte improntate al buon senso, allo sviluppo del ceto medio, all’incremento dell’offerta pubblica in assistenza e giustizia perequativa, al multilateralismo in politica estera, hanno conquistato un elettorato sfiancato dal cattivismo di Trump, di un Presidente indifferente all' esplodere delle diseguaglianze e tutto improntato ad un isolazionismo - prima di tutto etico - che tradisce la missione cosmopolita della democrazia americana.
I cittadini alla fine lo hanno compreso: l’America first è l'America sola, deprivata della collaborazione europea, irrilevante sui grandi temi come la tutela ambientale e lo sviluppo di una tecnologia sostenibile, senza voce credibile di persuasione al di fuori delle grandi agenzie dell'Onu di cui si è dichiarata nemica.

Con Trump è andata di moda - ed è stata esportata in tutto il mondo, pensiamo al nostro Salvini - la polemica contro il politically correct, contro il “dialogo eterno” e non violento (tipica caratteristica del parlamentarismo), contro il buonismo dei democratici, dipinti come ipocriti, nemici dell’interesse nazionale, segretamente dediti all' intelligenza con il nemico e cultori delle più nefande scelte progressiste antitetiche ai valori tradizionali cristianisti.
Valori – occorre precisarlo - utilizzati come armi mediatiche buone per consolidare il consenso dei conservatori.
E di nuovo il caso Salvini, con i suoi crocifissi e le sue madonne agitate a mo' di sfida contro “gli altri”, ritorna ad arricchire il caso esemplare!

Oggi, dopo il voto americano, cosa rimane di tutto questo?
Qualche nemico in più in Medioriente, la sfiducia europea, l’acuirsi del conflitto politico/economico con la Cina (divenuta, ormai, paradossalmente, campione del “mercato” e dello scambio contro il protezionismo a stelle e strisce), il trionfo dei negazionisti anti scientifici di ogni genere, il dilagare di una pandemia lasciata libera di scatenarsi contro neri e poveri, un Partito Repubblicano - quello di Lincoln - senza più anima e vittima dell’ illusione sovranista e, da ultimo, l'attacco armato contro la sede della democrazia americana, il Congresso, divenuto bivacco e ostaggio di un’orda multiforme di sostenitori del “potere bianco”, di un autoritarismo macchiettistico ma proprio per questo - perché acefalo - non meno pericoloso.
Questo è l'esito dell’estremismo settario, questo il destino degli “scorretti”, di questi “anarchici/autoritari” che a fin di picconare regole condivise, pratiche civili, norme di correttezza, speranze di pace, Istituzioni giuridiche, degradano inevitabilmente verso la violenza autodistruttiva.

Molti si domandano – e a buon titolo - cosa diranno oggi, sconfitti, i trumpiani di casa nostra, l’articolazione partigiana e sgrammaticata della Destra italica, urlatrice e becera: quella delle navi da affondare con i migranti a bordo, ad esempio, che, per un certo periodo, ha fatto la fortuna, per il consenso popolare ottenuto, di politici fortemente interessati al semplicismo retorico come Salvini e Meloni.
A mio parere, invece, sarebbe molto più interessante concentrarsi sull’ evoluzione interessata e naturalmente trasformista di un altro mondo: non degli estremisti per storia e (in)cultura ma di quei “moderati”, pseudo cattolici, gente “perbene”, cultori della palude e dello status quo, “produttori” e sedicenti persone “del fare”, sempre ambigui per partito preso che , in questi anni, a debita distanza certo, hanno appoggiato – nel Centrodestra - la deriva impropria di un mondo conservatore divenuto illiberale, demagogico, plebiscitario, autoritario e che ha visto in Trump, appunto, e anche in Orban, i campioni più promettenti per consenso e carica violenta.

In fondo, a pensarci bene, è una tentazione immanente e una declinazione sempre possibile di una certa “borghesia” italica (e non solo): il revanscismo di un “fascismo eterno”, vissuto come scorciatoia e soluzione “alessandrina” ai dilemmi, agli intrecci e alla complessità di una società plurale, discorde, contraddittoria, agitata dalla contingenza, ingovernabile in fondo nei suoi fermenti sempre nuovi, e che si vorrebbe, invece, “ridotta”, semplificata (perché così più controllabile) in una contrapposizione binaria “moralistica” del tipo: noi popolo/loro elites; verità-certezza/dubbio nichilistico; decisionismo/scetticismo rinunciatario; tradizione sicura/riforma senza identità, che, come tale, svela solo l'ansia autoritaria e di dominio di chi la coltiva, tutto il contrario di un sincero atteggiamento liberale democratico, aperto alle libere dinamiche del moto sociale.

Tra questo “bianco o nero” prevale oggi, per fortuna, l’approccio misto, non escludente, multietnico e multiculturale di kamala Harris: il “proprio” di un’America composita che fa delle differenze ricchezza e buon viatico per il futuro.
È questo, in fondo, il significato vero della parola tradizione, che non ha nulla di statico ma che ha a che fare con il “movimento”, con il “tra-durre”, il trasmettere, il decifrare - nell’ attualità - il meglio del retaggio del tempo.