Serhiy Zhadan big

Novembre è un mese molto importante per l’Ucraina. Ogni anno infatti, il quarto sabato del mese, il Paese e la diaspora ucraina in tutto il mondo commemorano lo sterminio per fame di milioni di contadini ad opera di Stalin noto come Holodomor (termine ucraino composto da due parole holod – carestia, fame – e moryty – uccidere).
A questo evento, fortemente voluto dal Presidente Viktor Yushchenko, molto attivo nel far conoscere la storia e la cultura dell’Ucraina oppresse da decenni di russificazione e sovietizzazione, si è aggiunta in tempi recenti la celebrazione, il 21 novembre, del “Giorno della dignità e della libertà” che ricorda due importanti eventi nella storia moderna del Paese: la Rivoluzione Arancione (2004) e la Rivoluzione della Dignità (2013-2014).
Coincidenza vuole che quest’anno i due eventi, celebrati anche dalla diaspora ucraina nel nostro Paese, cadano in concomitanza con l’uscita italiana de Il Convitto (Voland), l’ultimo romanzo di Serhiy Zhadan incentrato sul tema della guerra in Donbas, conflitto scatenato nella primavera del 2014 dalla Russia avvalendosi di proxy, truppe regolari, mercenari e separatisti locali.

Zhadan, forse lo scrittore ucraino contemporaneo più conosciuto in patria e all’estero (fatta eccezione per l’Italia dove una slavistica monopolizzata dalla russistica e un’ucrainistica spesso miope e autoreferenziale non permettono ad autori anche validi di essere conosciuti dal grande pubblico), è originario di Starobilsk (Luhansk), cittadina del Donbas dove è vissuto fino a diciotto anni prima di trasferirsi a Kharkiv.
Capitolo conclusivo di una trilogia ideale che comprende Voroshylovhrad (pubblicato in Italia nel 2016 da Voland con il titolo La strada del Donbas) e Mesopotamia (Voland, 2018), Il Convitto (titolo originale Internat), uscito analogamente a Mesopotamia dopo lo scoppio del conflitto tra Mosca e Kyiv, è senza ombra di dubbio l’opera migliore data sinora alle stampe dallo scrittore ucraino.

Smessi per sempre i panni dello scrittore rock, seppure anche ai tempi in cui veniva definito l’enfant-prodige della letteratura ucraina sarebbe stato riduttivo considerarlo semplicemente un romanziere dal taglio pop, nonostante le tante citazioni dai Beatles, ai Depeche Mode ai Sex Pistols disseminate qua e là nei titoli e all’interno delle sue opere (Depeche Mode, Anarchy in the Ukr), Zhadan è oggi un autore nel pieno della sua maturità.
La prosa non ha perso nulla della sua poeticità e le storie, più adulte e lancinanti che in passato, sono destinate a interessare un pubblico più vasto.
Il Convitto, che può essere letto legittimamente come un romanzo di formazione – l’evoluzione psicologica del protagonista, l’insegnante Pasha, con i conflitti identitari che lavorano carsicamente dentro di lui, fanno propendere per tale definizione avvicinandolo a classici del genere –, è fondamentalmente un libro sulla guerra.

L’intera vicenda si svolge nell’inverno del 2015 in un centro del Donbas caduto nelle mani dei separatisti (molto probabilmente si tratta di Debaltseve nonostante lo scrittore ucraino, non citi mai il nome della cittadina né la parola Donbas) ed è costruita intorno a tre parole chiave: sangue-morte-guerra (in ucraino: krov-smert-viyna).
Non è un mero dato statistico il fatto che nell’arco delle 300 pagine del testo questi termini ricorrano rispettivamente 55, 40 e 21 volte.
Talvolta l’idea della morte è veicolata tramite le immagini dei cani randagi – “dagli alberi spuntano tre cani randagi, si avvicinano all’edificio, magri e guardinghi. Sguardi angosciosi e disperati, come se negli ultimi giorni si fossero nutriti di cadaveri” – e della neve fradicia – “neve giallognola, scura, come marcia, morta da qualche giorno e ora lì a imputridire all’aria aperta.”
In quest’ultima opera, la neve, da sempre unitamente al cielo l’elemento naturale più presente nei romanzi di Zhadan, è spesso associata al grigio, alla morte, all’angoscia, raramente a un candore poetico.

“Si maledice e capisce che quel mortifero sapore di inverno, il soffio gelato della paura e del nulla lo accompagneranno fino alla morte, che per stavolta lei si è dileguata ma non mancherà di rivendicare i propri diritti, si rende conto che la morte non rinuncerà, che sa aspettare, e che lo raggiungerà in quelle stesse circostanze, nella neve profonda, sotto il cielo plumbeo, fra fiumi gelati.”
Il Convitto è un romanzo di guerra che “non ha niente di eroico, di ideologico o di predeterminato”, come fa giustamente notare la traduttrice Giovanna Brogi nella postfazione.
Nulla a che spartire con la retorica belluina intrisa di dannunzianesimo sovietico e granderusso di Limonov o peggio ancora del suo più giovane epigono Zachar Prilepin (il poeta vate da lassù ci perdoni per averlo accomunato a questi due mediocri scrittori russi) che nel romanzo
“Nekotoryie ne popadut v ad” (Alcuni non andranno all'inferno) – opera non ancora uscita in Italia – racconta la sua esperienza a Donetsk, a fianco dei separatisti in un battaglione creato per sua iniziativa al fianco del leader separatista Alexander Zakharchenko.
Zhadan, rifuggendo ogni retorica, anche quella pacifista, racconta ai lettori gli orrori e la stupidità di una guerra nell’ultimo angolo remoto d’Europa.