Feltri, Boldrini e i professionisti dell’antisessismo
Diritto e libertà
Sulla querelle (Mattia)Feltri-Boldrini ho letto molti commenti di giornalisti preoccupati di tenere una posizione “equilibrata” e quindi di tirare un colpo al cerchio della solidarietà e della libertà professionale e un altro alla botte del conformismo antisessista, che impone di considerare insindacabile ogni opinione coperta dalla speciale immunità della devozione alla causa.
Che queste opinioni abbiano una forma, un contenuto, uno stile, una (orrore!) opportunità o convenienza su cui si abbia diritto di eccepire qualcosa, è uno dei tanti lussi (rectius: diritti) che l’Italia politico-giornalistica ha ritenuto doveroso rottamare per non incorrere nel sospetto o nell’accusa di intelligenza con il nemico. Sia il nemico “sessista”, sia il nemico “mafioso”, o “terrorista” o (new entry) “negazionista”.
Grazie a questa remora, che è una vera e propria autocensura, è stato possibile trasformare la dogmatica dell’antimafia combattente in un credo civile indiscutibile e il talebanismo manipulitista in un manuale di educazione civica popolare. In virtù di questi precedenti, che hanno una naturale forza espansiva, come tutti i contagi, ogni buona causa (buona davvero, intendo) si corrompe diventando verità di Stato e la galleria dei personaggi chiamati ufficialmente a incarnarla un Pantheon di intoccabili, che possono dire quello che gli pare, e anche farlo. Dai professionisti dell’antimafia a quelli del manipulitismo a quelli dell’antisessismo il passo è breve, anzi nullo.
Criticare l’antimafia di Di Matteo (o ieri di Ingroia), l’anti-corruzione di Davigo, o l’anti-sessismo della Boldrini – comunque questo si eserciti – non si può. Non collaborarvi, rifiutando di trasformarsi in editori e stampatori coatti delle verità di Stato e dei loro sacerdoti incaricati, significa violare una esplicita, ancorché informale, interdizione e incorrere nella sanzione dell’ostracismo e nello sputtanamento reputazionale.
Questa, nella sostanza, è la colpa di Mattia Feltri, che si è rifiutato di pubblicare un pezzo antisessista in cui l’esempio esacrato di sessismo era rappresentato dal padre. Una pretesa meravigliosamente sovietica. “Non ci si può fidare di lui, perché non ha accettato di accusare e rinnegare il genitore”.
E se Vittorio Feltri dimostra che la volgarità, alla pari del fumo, nasce come stile, ma finisce per diventare un vizio incontrollabile e molesto, Laura Boldrini ha mostrato una volgarità di tutt’altro genere nella pretesa che l’imbarazzo del figlio diventasse abiura, con un riferimento del tutto inutile (se non a questo fine) e totalmente falso alle parole del padre, accusato di avere “attribuito la responsabilità dello stupro non all’imprenditore Genovese ma alla ragazza diciottenne vittima”. E tra tutte le cattiverie gratuite e le sciocchezze dell’articolo di Feltri senior questa proprio non c’è. Ma anche il falso d’autore, l’attribuire all’esecrato sessista – quale Vittorio Feltri pensa sia figo sembrare – un crimine inesistente (il sostenere che la violenza sia stata “colpa” della vittima) è una delle tante licenze politiche che i giusti pensano di potersi permettere, in nome della causa. Che è poi la vecchia storia dei fini che giustificano i mezzi, sciacquata nel fiume sacro del conformismo politico.
Laura Boldrini è una dei bersagli prediletti della più disgustosa misoginia politica. La difesa assoluta dalla denigrazione sessista, non condizionata cioè alla condivisione delle idee della vittima, è un dovere morale e anche giornalistico (non sempre peraltro praticato sul fronte progressista verso le politiche della cerchia berlusconiana, che è stato d’uso rappresentare all’ingrosso come un branco di mignotte). Ma la difesa delle vittime non consegna ad esse una patente di insindacabilità.
Si possono criticare e non accettare gli assolutismi giustizialisti di Di Matteo, che rischia ogni giorno di morire ammazzato dalla mafia. Si possono quindi anche respingere al mittente le provocazioni dell’ex Presidente della Camera, che chiama “censura” non il divieto di pubblicazione per un autore stabilito dalla pubblica autorità (questa è la censura), ma la decisione di un direttore di rispondere, fin troppo gentilmente, alla sua cafonaggine e al suo tentativo di fare di una grande questione pubblica il pretesto per un affronto privato, che è sempre la suprema affermazione di potere di quanti si credono potenti.