Oppo Pinocchio

Non molto tempo fa, sulla mia bacheca Facebook, notai questa foto che ritrae Gianni Morandi, con allegata questa didascalia: «ho letto che la Lega potrebbe cambiare nome per evitare il sequestro. Siccome, oltre a cantare, mi diletto con la grafica, ho ideato due loghi nuovi per il caro Matteo. È solo una bozza, ma voi che ne pensate?»

Sotto al post commenti vari: chi fa il tifo per il cantante, chi lo insulta, chi si limita a condividere la foto. I social network, si sa, polarizzano le opinioni. Alcuni utenti manifestano il proprio supporto, altri la propria indignazione. Nulla di strano. Se non fosse che la foto è stata pubblicata dal profilo di Gianni Moramdi. Non Morandi, Moramdi. Un profilo falso. O meglio, come si dice in gergo, un profilo fake. Un piccolo scambio di consonante ed il gioco è fatto. In quella "m" c’è probabilmente la quintessenza di una fake news. Ma facciamo un passo indietro.

 

Le origini

Il termine Fake News è certamente un neologismo, ma il concetto di falsa notizia è tutt’altro che nuovo. Pare infatti che Augusto, primo imperatore di Roma, condusse una vera e propria campagna di disinformazione contro il rivale Marco Antonio, accusato di essere un ubriacone e burattino al soldo di Cleopatra. In balia di tali dicerie e a seguito della notizia (falsa anch’essa) che Cleopatra si fosse suicidata, Marco Antonio si tolse la vita. Grazie a una fake news, Augusto era riuscito a distruggere la Repubblica e ad instaurare l’Impero.

Nell’antica Roma per recapitare un messaggio, vero o falso che fosse, ci si impiegava giorni, in certi casi mesi. Oggi, grazie al web, è sufficiente una frazione di secondo. E anche prima dell’avvento di internet, un’altra celebre fake news è passata alla storia come evento dai risvolti seppur fortunatamente non tragici, senza dubbio stravaganti. A seguito di uno sceneggiato radiofonico trasmesso negli Stati Uniti nel 1938 ed interpretato da Orson Welles, dal titolo “La guerra dei mondi”, che narrava di una invasione extraterrestre nel territorio nord americano, centinaia di cittadini statunitensi si riversarono nelle strade: alcuni impauriti, altri letteralmente a caccia di alieni.

 

Definizione

Ma cosa si intende esattamente per fake news? Cosa rientra nella definizione e cosa, invece, ne resta fuori? Per rispondere a queste domande torna utile il Rapporto dell’High-Level Group on Fake News and online disinformation, una task force di esperti nei campi di media e giornalismo, membri della società civile ed accademici. Il rapporto, pubblicato a marzo di quest’anno dalla Commissione Europea, chiarisce che parlare di fake news è impreciso e sarebbe meglio fare riferimento alla disinformazione, un fenomeno molto più ampio e complesso di una semplice falsa notizia: accade spesso che, da un lato, una fake news non sia del tutto falsa, ma contenga elementi fattuali realmente accaduti; e, dall’altro, che vada oltre il basilare concetto di notizia, inglobando fenomeni quali meme, trolling organizzato, bot di followers falsi, data driven ads, e via dicendo.

Inoltre, il termine fake news ha ormai acquisito un pericoloso connotato politico, che porta spesso gli attori e i simpatizzanti dell’una o dell’altra fazione ad utilizzarlo per attaccarsi a vicenda. Ai fini di questo articolo è dunque utile chiarire che per fake news, o meglio, per disinformazione, si intende ogni forma di informazione falsa, inaccurata o ingannevole ideata e promossa allo scopo di arrecare danno alla società o a fini di lucro. Restano fuori da questa definizione l’alterazione di fatti a scopo satirico o parodistico, e la creazione e diffusione di contenuti illegali (in quanto fattispecie già assoggettate alle leggi europee e nazionali).

 

I tentativi di regolamentazione a livello europeo

Con l’intento di chiamare i cittadini europei a contribuire al processo legislativo dell’Unione, la Commissione Europea ha lanciato nel Novembre 2017 una consultazione pubblica su fake news e disinformazione online diretta a persone fisiche, social media, giornalisti e accademia. Risultato di questa consultazione è stata la formazione del gruppo di esperti sopra menzionato, che resterà in carica fino a Dicembre 2018.

Concreti step dal punto di vista strettamente regolamentare la Commissione (che, ricordiamo, è l’unica istituzione UE con potere di iniziativa legislativa) non ne ha ancora fatti. Tuttavia, il rapporto citato, annovera un primo, interessante, progetto di autoregolamentazione: si tratta di un EU-wide Code of Practice sulla disinformazione. I firmatari del codice, principalmente attori dell’arena digitale quali (ancora una volta) social network e media, si impegnano ad rispettare una serie di principi che vabnno dalla trasparenza della pubblicità a contenuto politico, alla chiusura di profili fake, alla demonetizzazione di contenuti rivelatisi falsi.

 

L’approccio dei social network

Da qualche anno ormai, le maggiori piattaforme social offrono la possibilità direttamente ai propri utenti di segnalare i contenuti ritenuti falsi, inaccurati o ingannevoli, ed eventualmente oscurare quelli ad alta densità di segnalazioni. Quello che succede spesso, tuttavia, è che gli utenti non segnalino una notizia o un articolo perché li ritengano falsi, quanto piuttosto perché semplicemente in disaccordo con il loro contenuto. Esempio: non mi piace la notizia che Elon Musk abbia venduto migliaia di lanciarazzi dopo un tweet preso un po’ troppo sul serio? La segnalo come fake news.

 

Come fare, dunque, per prevenire tale fenomeno?

Alla fine dell’estate, Facebook ha lanciato un nuovo strumento per valutare l’attendibilità dei propri utenti. Una sorta di reputational score: ogniqualvolta un utente segnali come fake una notizia che si rivela, in seguito, effettivamente falsa, guadagna un punteggio. E, cosa forse piu’ importante, guadagna la stima di Facebook, che d’ora in avanti lo considererà come utente più affidabile di utenti le cui segnalazioni si sono poi invece rivelate errate.

 

Le elezioni Europee 2019 e il modello US

Come in più occasioni sottolineato dalla Commissione Europea, le fake news sono un rischio non solo per i singoli individui, ma anche per i nostri sistemi democratici, che affidano al cittadino, informato o disinformato che sia, la scelta dei propri governanti.

Nel 2019 si terranno le elezioni politiche europee e c’è da aspettarsi che larga parte della campagna elettorale si svolga sui media digitali. È soprattutto online che oggi si vincono (e si perdono) le elezioni, lo sappiamo bene. E lo sanno bene negli Stati Uniti d’America dove, alla luce delle elezioni presidenziali del 2016, la DAA (Digital Advertising Alliance) – già promotrice del programma AdChoices – ha lanciato nel Maggio scorso l’iniziativa “Political Ad”.

Si tratta di una iconcina viola che appare in alto a destra nelle pubblicità online relative ai candidati ed apre, all’utente che decide di cliccare, una pagina informativa sul provider della campagna pubblicitaria e i suoi relativi contatti, nonché dettagli sul finanziamento della campagna stessa.

 

In Italia?

Secondo una recente ricerca dell’Eurobarometro, ad un quesito inerente l'affidabilità delle diverse fonti di informazione il 44% degli italiani ha risposto che i social network vengono considerati come fonti non affidabili, riponendo invece fiducia nella televisione (46%), nella radio (48%), ma soprattutto nella carta stampata (50%).

La stessa ricerca rivela poi che il 37% degli italiani ritiene di imbattersi in una fake news ogni giorno (o quasi), ma solo il 14% di essi si ritiene in grado di smascherarne una. Dato interessante, infine, è che 58 italiani su 100 sono consapevoli del fatto che l’esistenza delle fake news metta a repentaglio le nostre democrazie e, interrogati su chi debba essere incaricato di vigilare sulla diffusione di false notizie in rete (e non), i nostri concittadini hanno risposto che tale compito spetterebbe alle autorità dello Stato, coadiuvate da rappresentanti dei media e giornalisti. Solo una minoranza affiderebbe la vigilanza sulla disinformazione ai social network ed alle istituzioni europee.

 

Online media literacy e lo span di attenzione

All’avviso di chi scrive, sono due le principali ragioni per le quali una percentuale tanto bassa di utenti si ritiene in grado di smascherare una fake news.

La prima: l’assenza di una strategia politica chiara di istruzione e formazione dell’utenza tanto all’utilizzo dei mezzi quanto alla gestione dei contenuti dei quali fruiamo ogni giorno. Quasi tutti, oggi, hanno accesso a device tecnologici cratterizzati da enormi potenzialità, ma anche da enormi rischi. Diffondere una fake news o finire vittime di una bufala, sono solo la punta dell’iceberg delle conseguenze a cui giornalmente ci esponiamo mediante l’utilizzo dei nostri dispositivi (specialmente mobili). Riforme, sia a livello europeo che nazionale, che promuovano azioni educative nelle scuole di ogni grado, e diffondano campagne di condivsione responsabile dei contenuti online non sono più qualcosa che possiamo permetterci di rinviare a domani. Il foglio illustrativo e le controindicazioni si trovano, da sempre, nella scatola di qualsiasi medicinale. Perché non fare lo stesso con uno smartphone?

La seconda: un recente articolo del The Guardian sottolinea come ormai, al giorno d’oggi, a causa di vari fattori quali la quantità di contenuti a cui abbiamo accesso, la loro facile reperibilità e la fruizione su schermo invece che su carta stampata, tendiamo a non leggere più un testo. Lo scremiamo. Una volta identificate le parole chiave, scannerizziamo in fretta, in cerca del messaggio principale, e lasciamo perdere il resto. Con la testa già al prossimo testo da scremare. I rischi di questo approccio sono diversi, e variano dalla mancanza di approccio critico e comprensione di ciò che si legge, alla carenza di empatia nei confronti di ciò che si legge. Tanto l’uno quanto l’altro fattore, producono il risutato che quando ci troviamo di fronte a una notizia falsa non la riconosciamo. O meglio, non abbiamo il tempo di riconoscerla.

 

Mythbusting e debuking

Per il momento, a mettere ordine in questo caos ci pensano alcuni supereroi senza maschera, a cui è dedicato l’ultimo passaggio di questo articolo.

Ricordate Bill Murray in tuta gialla ed armato di zaino protonico? Era uno dei ghostbusters, i cacciatori di fantasmi di un celebre film degli anni ’80. Non armati di zaino protonico, ma di raffinato senso di investigazione, e non a caccia di fantasmi ma di falsi miti e fake news, i vari mythbusters e debunkers italiani agiscono nel web con l’intento di smascherare chiunque (sia esso un singolo individuo, od un collettivo di individui/bot) crei o diffonda false notizie online.

Alcuni esempi sono il CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze), fondato da Piero Angela e Umberto Eco, specializzato nello sfatare, con prove rigorosamente scientifiche, presunti fenomeni paranormali; Paolo Attivissimo, attivo (molto attivo…) giornalmente nello smentire le teorie del complotto dietro l’allunaggio e gli attacchi terroristici dell’11 Settembre; Pagella Politica, che si occupa di verificare le dichiarazioni dei politici; e poi ancora BUTAC (Bufale Un Tanto Al Chilo), David Puente, Massimo Polidoro, e molti altri.

E chi controlla i controllori di fake news? A livello internazionale esiste l’IFCN (International Fact-Checking Network). A esso si ispirerà la Commissione Europea nella creazione di un network indipendente di fact-checkers che possa operare trasversalmente a livello europeo secondo principi comuni e best practices.

Siamo dunque giunti alla fine. Lo scopo di questo articolo era quello di informare i lettori sul fenomeno della disinformazione. Augurandomi di essere riuscito nell’intento, spero che leggendo queste pagine i lettori non diventino informati a tal punto da sospettare che il disinformato sia proprio io.