casa de papel big

Se prima era la letteratura la sede delle pulsioni politico-sociali contemporanee e delle avvisaglie di quel che stava per avvenire – giusto per fare un esempio, Daniel Defoe pubblicò il suo Robison Crusoe nel 1719, e fu un formidabile ballon d'essai tanto dell'individualismo borghese-liberale, allora ai suoi albori, quanto del suprematismo bianco inteso come legittimazione morale e perfino religiosa del colonialismo –, oggi lo spirito del tempo è rintracciabile nelle serie tv. In un'ottica un po' luddista, siamo di fronte all'involuzione da homo sapiens a "homo videns" (così battezzato da Giovanni Sartori), o più semplicemente – e meno radicalmente – alla perdita di autorevolezza sociale e culturale del romanzo. Ne ha scritto, mestamente, Jonathan Franzen, il più noto fra gli autori etichettabili come "tecnofobi". 

E non si può che cominciare citando quell'ormai arcinoto concentrato di tecnofobia che è Black Mirror. La serie, composta di episodi stand-alone, è comunque monotematica, e il tema è per l'appunto il rapporto di proporzionalità diretta tra tecnologizzazione e disumanizzazione. Se, come già scritto altre volte, il progresso tecnologico, nel Novecento, fu alla base del modernismo reazionario, e cioè del ritorno a un medioevo corporativo e autarchico paradossalmente propagandato attraverso mezzi di comunicazione di massa moderni, oggi la rivoluzione digitale sembra aver tirato la volata all'internazionale nazionalista e, più generalmente, al regresso giuridico-filosofico della civiltà occidentale (in una delle puntate più belle della prima stagione di BM, "Orso bianco", viene affrontato il tema della spettacolarizzazione-democratizzazione della giustizia… e in effetti il cittadino-utente, versione digitalizzata dell'uomo-massa, sembra essersi stancato dell'impianto giusnaturalista dei sistemi giuridici contemporanei: s'invoca con la bava alla bocca una giustizia instant ed "esemplare").

In una serie di successo insolitamente spagnola, La Casa di Carta, è invece rintracciabile l'analfabetismo politico-economico che i sovranisti hanno capitalizzato e investito con profitto contro le istituzioni sovranazionali. La legittimazione politica del "colpo del secolo", una maxi-rapina alla zecca di Madrid, poggia sull'assunto che le politiche monetarie espansive della BCE – e dunque, perché no, anche il quantitative easing di cui l'Italia sta tuttora beneficiando – siano "regali alle banche", e che dunque stampare moneta da destinare a un commando di uomini qualunque in difficoltà sia moralmente lecito. Perché non affrontare la crisi con ripetute e mastodontiche iniezioni di liquidità? (La riposta è nel Venezuela di Maduro…).

Non si tratta di un dettaglio attinente alla struttura politico-ideologica che poco o nulla ha a che vedere con l'aspetto estetico-narrativo della serie – che anche su quel piano non brilla per originalità: pessima sceneggiatura, agnizioni da romanzo d'appendice e abuso di "cliffhanger", cioè suspense forzata a cavallo fra un episodio e l'altro –, ma di un elemento centrale che ha determinato un epilogo a tarallucci & vino nonché, quel che è più grave, la solidale immedesimazione degli spettatori coi protagonisti. Di certo medici e biologi insorgerebbero se una versione pro omeopatia e antivaccinista di Dr. House andasse in onda e diventasse "virale"

(Un appunto. Si potrebbe obbiettare che la fede ideologica dei criminali-rivoluzionari non è sovranista ma, al contrario, comunista: il loro inno è Bella Ciao e la mente che ha pianificato il colpo è convinta di aver intrapreso contro il capitalismo finanziario la medesima guerriglia di resistenza che il nonno partigiano, suo idolo, fece contro il fascismo italiano. Ma nazionalpopulismo "nero" e neo-marxismo sono parimenti antiliberali, prova ne sia l'asse Fusaro-Salvini… E poi, a dirla tutta, sarà stata anche una scelta estetica: la rivoluzione, con la sua iconografia e le sue liturgie, è assai più telegenica e socialmente presentabile della controrivoluzione).

La pluripremiata Il racconto dell'Ancella e, immancabilmente, American Horror Story: Cult chiudono la disamina.

Se il romanzo dal quale è tratta la prima è un manifesto del femminismo, non è in quest'ottica che oggi può esser letta la serie: il maccartismo femminista, come dimostra l'affaire Argento-Weinstein, è a sua volta un sintomo di quella degenerazione della nostra quotidianità in una presa della Bastiglia permanente.

Va letta piuttosto come una distopia che meglio di molte altre dimostra come lo Stato, nel nome di un interesse collettivo assolutizzato e "misticizzato", possa giungere a violare perfino la sfera più intima dell'individuo, quella sessuale: le ancelle, schiavizzate in quanto donne fertili in un'America teocratica prossima alla bancarotta demografica, sono obbligate, fra l'altro, a subire uno stupro ritualizzato e a cedere i figli agli oligarchi cui sono state assegnate. La maternità surrogata, dunque, viene non legalizzata, ma sdoganata teologicamente e istituzionalizzata nella sua forma più radicale giusto in una teocrazia cristiana: una perfetta esemplificazione dei paradossi che caratterizzano qualunque regime e ideologia illiberale.

Ma è nella settima stagione di AHS, un raffinatissimo horror psico-politico, che viene messo a nudo il déjà-vu della politicizzazione delle frustrazioni e delle paure come tecnica efficacissima di costruzione del consenso. Un agit-prop trumpiano – interpretato dal solito ineguagliabile Evan Peters – mette su una setta a-ideologica, multietnica e perfino "omofila" composta di piccolo-borghesi per l'appunto impauriti e rabbiosi, per questioni economiche, professionali, interpersonali, comunque private (l'agnosticismo ideologico e l'eterogeneità etnica, ma non sociale, certificano che la priorità è sobillare, eccitare la rabbia del ceto medio anziché razionalizzarla… L'emotività è tutto, il problem solving politico-economico nulla).     

È semplice individuare il fil rouge che lega fra loro le serie tv citate – e tanti altri prodotti televisivi e cinematografici –, e cioè la progressiva irrazionalizzazione della politica contemporanea. Ci troviamo di fronte alla seconda crociata antiilluminista della storia (la prima fu quella innescata dalla crisi del '29: la radicalizzazione rivoluzionaria o controrivoluzionaria novecentesca fu, marxianamente, una "sovrastruttura"). Possiamo analizzarne le dinamiche "in diretta" con gli strumenti fornitici da Manzoni, Orwell, Le Bon, Tocqueville ecc, e "apprezzarne" la trasposizione televisiva abbonandoci a qualche piattaforma streaming. Probabilmente affonderemo, ma consapevoli delle cause del naufragio e fruendo di prodotti culturali di ottima fattura.

P. S. Il tema dell'ultima stagione di Homeland sono le cyber-ingerenze russe nel sistema mediatico-politico USA (produzione industriale di fake news, bot, troll e tutto quel che serve per l'avvelenamento digitale dei pozzi perseguito da eserciti di hacker a libro paga di Putin). Sarebbe stato opportuno citarla, ma squalificarla è troppo semplice: "tutto soft power a stelle e strisce".