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Lo scorso mese di maggio il Consiglio di Stato, con l’Ordinanza n. 4303/2018 si è espresso sul ricorso presentato dalla Regione Molise e da uno degli affidatari del servizio di trasporto pubblico locale per ottenere l’annullamento di una sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise.

In primo grado, con la sentenza n. n. 278/2017 i giudici del TAR per il Molise avevano accolto il ricorso presentato contro il provvedimento regionale con il quale erano stati disposti l’estensione della rete dei servizi regionali di TPL e l’affidamento della gestione degli incrementi chilometrici in modalità diretta alla società titolare del contratto di servizio.

Per quanto concerne il primo dei motivi alla base del ricorso – quello relativo all’affidamento diretto del servizio – il Tribunale Amministrativo Regionale per il Molise l’aveva ritenuto fondato sulla base della lettura combinata del regolamento comunitario e della normativa italiana di riferimento. I giudici avevano evidenziato, infatti, che il Regolamento CEE 1370 del 2007, all’art. 5 paragrafo 3, ammettesse l’affidamento diretto dei contratti che hanno un valore annuo medio e riguardano la fornitura di servizi di trasporto pubblico sotto le soglie indicate, a condizione, però, che non fosse vietato dalla legislazione nazionale. Alla luce di ciò e del fatto che – secondo quanto scritto nella sentenza n. 278/2017 – “la legislazione nazionale preclude la possibilità di un affidamento diretto, avendo l’art. 18 del d.lgs. n. 422 del 1997 previsto la gara come regola generale”, il TAR per la Regione Molise ha annullato la Delibera della Giunta Regionale del Molise condannando la Regione a risarcire la società che aveva presentato il ricorso per il danno derivante dall’affidamento diretto, e senza gara, di quella parte del servizio di trasporto pubblico locale istituito con il medesimo provvedimento Giuntale.

Il soggetto beneficiario dell’affidamento diretto e la Giunta Regionale del Molise si sono rivolti al Consiglio di Stato sostenendo che la sentenza del TAR n. 278/2017 - per l’aspetto che riguarda la censura del mancato ricorso ad una procedura ad evidenza pubblica – fosse fondata su un presupposto errato. Nei motivi di appello descritti nell’Ordinanza n. 4303/2018, la società appellante ha sostenuto che l’interpretazione della normativa interna fatta dal Tribunale Amministrativo fosse errata dal momento che quest’ultima - si legge – “non porrebbe affatto quel divieto assoluto di affidamento diretto del servizio TPL in presenza del quale la disciplina comunitaria impone l’attivazione, in ogni caso, della gara aperta”, e dunque anche nel caso di quei servizi rispetto ai quali potrebbe trovare applicazione la cosiddetta regola de minimis fissata dal legislatore comunitario.

Di fronte all’obiezione della società ricorrente – secondo la quale, in altri termini, il legislatore stabilendo come regola generale per l’affidamento dei contratti di servizio di Trasporto Pubblico Locale quello della gara pubblica non ha introdotto automaticamente e conseguentemente nell’ordinamento il divieto di procedere tramite affidamento diretto al quale si riferisce il legislatore comunitario – il Consiglio di Stato non si è espresso nel merito. Il Collegio giudicante ha ritenuto, però, che ci sia “un dubbio interpretativo che giustifica il rinvio alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 TFUE” e ha pertanto deciso di rimettere una questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia sospendendo il giudizio.

I giudici della Corte di Giustizia della UE sono, dunque, chiamati a rispondere alla seguente domanda: “l’art. 5, comma 4, del Regolamento (CE) 23/10/2007 n. 1370/2007 deve essere interpretato nel senso che ricorre nella legislazione nazionale il divieto all’affidamento diretto del servizio di trasporto pubblico locale, preclusivo dell’affidamento diretto anche nei casi in cui sarebbe consentito dalla normativa euro-unitaria, quando è posta la regola generale della gara pubblica per l’affidamento del predetto servizio ovvero soltanto nel caso di divieto specifico di affidamento diretto anche in relazione alle ipotesi in cui è consentito dalla normativa comunitaria”?

La formulazione del quesito da parte dei giudici del Consiglio di Stato consente di fare due considerazioni. La prima ha a che fare con i risvolti che il quesito può avere sul piano della valutazione dei rapporti tra cittadino Pubblica Amministrazione e legge, e la seconda con il contenuto specifico del quesito e con il soggetto al quale è indirizzato. Per quanto riguarda il primo ordine di considerazioni sembra che dall’Ordinanza del Consiglio di Stato si possa dedurre la seguente morale: per censurare l’operato di una Pubblica Amministrazione non è sufficiente accertare il fatto che l’operato di quest’ultima si ponga in contrasto con la regola generale che il legislatore vuole che trovi generalmente applicazione, così come accade nel caso in cui è l’operato di un cittadino e/o di un’impresa a dover essere giudicato anche quando – e non è così raro – la regola e/o le regole con le quali confrontarsi non sono formulate in modo così chiaro ed univoco.

Quanto al merito e al destinatario del quesito la domanda formulata dai giudici della Quinta Sezione del Consiglio di Stato sembra mal posta ed indirizzata all’interlocutore sbagliato. Non sono i giudici della Corte del Lussemburgo a dover stabilire se, secondo il Regolamento comunitario, il divieto di procedere all’affidamento diretto dei servizi in regime de minimis debba essere disposto espressamente, ovvero se sia sufficiente dedurlo da una normativa, come quella italiana, che stabilisce che si debba procedere, in via generale, attraverso procedure ad evidenza pubblica.

Piuttosto che interpellare la Corte di Giustizia dell'Unione Europea per sapere cosa abbia voluto intendere il legislatore comunitario con la locuzione “a meno che non sia vietato dalla legislazione nazionale” contenuta nel Regolamento, sarebbe il caso di chiedersi cosa abbia voluto stabilire il legislatore nazionale nel momento in cui ha fissato “il ricorso alle procedure concorsuali” come regola generale per la scelta del gestore del servizi di TPL, prevedendo delle disposizioni transitorie per i contratti e gli affidamenti in essere al momento dell’entrata in vigore della normativa, ma senza fare alcun esplicito ed espresso riferimento all’applicabilità del regime de minimis di cui all’art. 5 paragrafo 4 del Regolamento comunitario per l’aggiudicazione di contratti di servizio di valore inferiore alle soglie stabilite.

Le domande che la questione oggetto della vicenda giurisdizionale solleva vanno, semmai, poste al regolatore (legislatore) italiano e possono essere poste invitandolo a schierarsi e a dire se nell’ordinamento giuridico italiano il ricorso alla gara vada considerato un un principio/regola debole da mettere in discussione ponendo le condizioni perché possa essere – rectius continuare ad essere – aggirato ed eluso non solo quando, come nel caso del TPL in Molise, viste le dimensioni del servizio affidato e la normativa comunitaria vigente, il legislatore nazionale potrebbe (o come sembra più giusto scrivere avrebbe potuto) consentirne l’affidamento diretto, ma ogniqualvolta le condizioni al contorno sembrano renderlo più conveniente e opportuno dal punto di vista politico, della continuità aziendale, della pax sociale e/o in nome di una delle tante contingenze che, di volta in volta, vengono anteposte all’applicazione della regola.

Oppure se l’affidamento tramite procedure ad evidenza pubblica del servizio di trasporto pubblico locale - così come di altre tipologie di servizio - vada considerato, per utilizzare con i dovuti aggiustamenti il giudizio di Churchill sulla democrazia, la peggiore delle regole possibili a eccezione di tutte le altre, e che dunque deve trovare applicazione sempre e comunque. 

Se l’opzione giusta è la seconda, ciò va affermato e sostenuto sia quando ci si confronta con il caso del trasporto pubblico locale della regione Molise, sia quando, per esempio con il referendum promosso da Radicali Italiani e Radicali Roma sulla gestione del trasporto pubblico a Roma vengono in rilievo questioni più complesse.

Tornando in conclusione alla decisione dei giudici del Consiglio di Stato, va osservato anche come un ordinamento giuridico sufficientemente articolato e maturo come quello italiano, debba assicurare “il governo della legge” in modo responsabile e senza espedienti dilatori come la rinuncia alla “sovranità” giurisdizionale scelta dai giudici di Palazzo Spada. Tutto ciò anche perché la normativa oggetto della controversia giurisdizionale è stata approvata ed è in vigore ormai da molti anni, e dunque una domanda - come quella posta dai giudici di Palazzo Spada - si sarebbe potuta/dovuta presentare, da tempo, all’attenzione dei soggetti tenuti a dare seguito alle disposizioni normative, dei giudici chiamati a valutare e giudicare l’applicazione e l’applicabilità in generale delle leggi, ed eventualmente anche di quella del legislatore.