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Nell’epoca, che ho definito del “post-pensiero”, plasmata dall’intreccio pragmatico di tecnologie comunicative, globalizzazione puramente finanziaria e algoritmi, la democrazia rappresentativa va alla deriva nella “demagogia”. E posso dire, a titolo di premessa di quanto dirò qui di seguito, che il potere finanziario ha uno specifico interesse a liquidare la rappresentanza politica nella demagogia, per consolidare quel potere tecnocratico, che è funzionale ai propri interessi e profitti.

 Una politica forte, infatti, originata da un tessuto sociale solido, che si nutre di una ferma “credenza” nelle Istituzioni e fondata su di una “sovranità” certa, finirebbe per realizzare un potere effettivo capace di contrastare efficacemente quello, altrettanto “effettivo”, dei poteri finanziari.

Dopo la premessa, la deriva demagogica. Nulla di nuovo sotto il sole della storia. Basti ricordare le riforme dell’ateniese Clistene dopo Solone, 2.500 anni fa, fino alle dittature del ‘900, tutte in nome del popolo, e direttamente, ma a proclami, “con il popolo”. Con un particolare che “il popolo” dovrebbe tenere a mente: la dittatura del proletariato, pensata filosoficamente da Marx, fu concretizzata politicamente dal tandem Lenin – Stalin, organizzata e governata dai Soviet, disciplinata dalla polizia segreta e dai manicomi. Quella, per fortuna assai più breve, del Nazional-socialismo, ebbe la sua apoteosi, ma anche la sua fine, nei lager, nelle persecuzioni raziali, nell’invasione di mezza Europa, dalla Polonia alla Francia.

Questo significa governare direttamente in nome del popolo, senza l’intermediazione di un’autorevole forma rappresentativa praticata dai partiti politici. Su questo tornerò più avanti. Per ora ancora due parole sul “popolo”. Il “popolo” è quello che ha fatto fallire la rivoluzione degli intellettuali napoletani del 1799, ed era il medesimo popolo (napoletano o parigino, sociologicamente non fa differenza) che aveva assistito con la medesima predisposizione e consenso (si fa per dire) alla esecuzione di Luigi XVI e di Robespierre. Sempre la parola “popolo” è utilizzata per corroborare fenomeni dei quali si vuol sottolineare il cambiamento radicale di sistema (spesso apparente e momentaneo) con l’espressione “amico del popolo”; espressione con la quale in questi giorni il 5 Stelle Di Maio legittimava alla funzione di Presidente del Consiglio il prof. Giuseppe Conte e che ha un suo precedente storico, come ha sottolineato Aldo Cazzullo, ricordando l’analogia con Marat (da Di Maio probabilmente ignota). Ed io potrei aggiungere, se il paragone non fosse irriverente, “amica del popolo” si professava anche l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, quando affermava “tutto per il popolo”, aggiungendo poi, con grande sincerità, “nulla con il popolo”. Sincerità che una donna del ‘700 aveva, anche perché poteva permettersela impunemente, ma che manca del tutto ai politicanti di oggi, anche quando fanno finta di essere davvero e finalmente sinceri.

Dunque, il popolo ha “amici”! E da dove vengono questi amici? Da scampagnate fatte assieme, da vacanze di 7 giorni nei villaggi vacanze, dal condividere un cinema, uno spettacolo, una cena…o magari da un sentimento che nasce da una condivisione di vita? No, si tratta di una espressione detta e fatta circolare in certi frangenti delicati della vita sociale per creare una suggestione che vada a costituire l’immaginario collettivo.

Vi sono poi altre due espressioni che servono al medesimo scopo, anch’esse lessicalmente suggestive, ma del tutto logicamente e sperimentalmente impossibili, e tra loro sottilmente collegate; e sono: 1 vale 1 e la nuova opposizione è “popolo – élites” e non più destra – sinistra.

Innanzitutto: 1 vale 1. Ogni persona umana ha un suo specifico valore a seconda delle attività e dei compiti che è chiamato a svolgere nella sua vita. Un filosofo non vale quanto un muratore nel fare opere murarie, né vale quanto un ingegnere nel progettare un ponte. Un grande avvocato non vale quanto un padre e una madre, che con un modesto stipendio, devono riuscire a far quadrare il bilancio per tirare avanti. Certo, in altro luogo, il grande avvocato o il filosofo valgono di più dell’ingegnere, del muratore o del padre di famiglia.

Dunque i valori sono diversi a seconda delle competenze, delle attitudini e delle qualità personali in relazione alle vicende della vita e ai luoghi nei quali si è chiamati ad esercitarle. E questo vale in particolare quando il luogo è la politica. La politica si distingue dalla pratica della vita quotidiana per una caratteristica che la struttura e che si può sintetizzare così: il tempo e lo spazio della politica non coincidono con il tempo e lo spazio proprio della quotidianità. Il tempo e lo spazio dell’uomo comune è quello che si può denominare l’”orto di casa”; può essere più ampio o più circoscritto in relazione alla tipologia sociale del soggetto, ma in ogni caso è quella dimensione di vita che ciascuno di noi riesce a conoscere e dominare in quanto propria.

Lo spazio-tempo della politica è tutt’altra cosa. Primo, perché trascende la vita dei singoli, non riguarda la vita di chi la pratica, ma tocca ed incide sulla vita di altri dislocati anche in altri tempi ed in altri spazi. Pensiamo all’oggi: in che misura la quotidianità della vita personale di ciascuno può tentare di conoscere davvero e dominare i processi di globalizzazione finanziaria? Per questo si richiede al politico una formazione intellettuale e culturale che in qualche misura, e nella misura dell’accettabile e del possibile, ne certifichi la competenza. Dunque, in nessun caso 1 vale 1 nelle attività della vita quotidiana come in politica. Lo faceva capire un giurista colto quale fu Carl Schmitt, proprio in quel volume La dottrina della Costituzione (1928), che fu di guida alla costituzione dello Stato d’Israele (l’ironia della storia!), quando mette in luce che l’elettorato attivo e passivo si fondano sulla consapevolezza che deve avere, sia chi elegge sia chi viene eletto, di assegnare e di divenire titolare di un ufficio pubblico, mediante il quale il singolo deputato rappresenta l’intera nazione e non è un mandatario privato dell’elettore. Questo è un aspetto fondamentale, per quanto fuori della mentalità comune; l’elettore, infatti, è chiamato a svolgere una funzione pubblica e non ad operare per soddisfare un proprio, specifico, interesse privato.

In continuità con queste osservazioni, ne segue che affermare che la distinzione destra - sinistra è superata dalla nuova “popolo – élite” è privo di senso reale, per più ragioni di ordine fattuale. Basti riflettere che la prima élite che si configura è quella che distingue gli appartenenti alle istituzioni di governo dalla “base” popolare. Su questa distinzione si sono costruiti conflitti storicamente decisivi, ogni volta che una esperienza politica, fondata alla sua origine sull’idea egualitaria di “movimento” , avendo conseguito il potere o anche solo “un” potere, ha dovuto stabilizzarsi in “istituzione”. Pensiamo, nel piccolo, alla polemica “movimento – istituzione” che ha attraversato la storia del sindacalismo italiano degli anni ’70; oppure, nel grande e tragico, al conflitto Stalin - Trotski, con la morte di quest’ultimo proprio perché rivendicava il significato ugualitario del movimentismo a fronte della stabilizzazione istituzionalizzata, e quindi elitaria, del potere di Stalin.

Più in generale, ogni potere, quale che sia la sua origine, è il prodotto di una stabilizzazione dell’obbedienza poiché quest’ultima, la quale sola rende effettivo il potere (è bene averlo presente, al di là di ogni proceduralismo), non può rimanere legata alla esecuzione del singolo, puntuale comando. In altre parole, il potere (qualsiasi potere) deve trasformare il comando in sistema. Finché si resta al livello del “comando”, i comandanti possono cambiare e avvicendarsi; quando si arriva al livello del “potere” questo coincide con la stabilizzazione in sistema del comando come organizzazione dell’obbedienza. E qui si crea la distinzione fattuale (e poi anche, eventualmente, giuridico formale) tra élite governante e governati.

Quindi, chi proclama che la nuova distinzione dialettica è “popolo – élite” fa un’affermazione fattualmente contraddittoria, che viene smentita nel momento in cui egli stesso la pronuncia, poiché chi la pronuncia, in quanto attore pronunciante (diciamo cosi), si differenzia dal destinatario che resta spettatore. La vecchia distinzione dialettica “destra – sinistra” era fondata su una diversa idea di governo per un progetto umano e sociale, per la quale idea la competenza storico-culturale era fondamentale per la sua credibilità; l’attuale distinzione popolo – élite, a parte la sua contraddizione fattuale, qualora fosse realistica, si tradurrebbe in una dialettica sociale tra politicamente competenti e politicamente incompetenti.

Si realizzerebbe quell’ 1 vale 1, di cui sopra, che significa la fine di ogni competenza in qualsiasi settore dell’attività umana. Esperienza, quest’ultima, che la storia recente ha conosciuto con la rivoluzione culturale cinese (metà anni ’60 – 70), con una finalità ben precisa: quella di immunizzare il potere di Mao dallo stabilizzarsi di una disobbedienza, prodotta dall’auto riconoscimento e distinzione operativa delle diverse competenze, soprattutto intellettuali, nei vari settori della vita. In altre parole, fermo restando il valore delle diverse competenze e, anzi, proprio per questo, occorreva nei fatti trascenderne il peso operativo, fondando quest’ultimo nella radicalità politica dell’ “incompetenza”. L’unico ed esclusivo “competente” rimaneva e rimase, però, Mao Zedong.

Un’ultima considerazione sempre in tema di formule comunicative, a proposito della formula “amico del popolo” sollecitata dalle recenti vicende italiane, ma che va oltre l’attuale contingenza. Ho già avuto modo di scrivere in passato che non bisogna confondere il partito politico o un altro soggetto politico (un “movimento” per esempio) con i gruppi parlamentari, per la ragione che solo questi ultimi sono soggetti pubblici, titolari della rappresentanza parlamentare; i primi sono soggetti di diritto privato.

Ora l’attuale Presidente del Consiglio incaricato, al di là delle polemiche sul curriculum e al di là anche della indagine di Sergio Rizzo sulle pagine di Repubblica, è una figura costituzionalmente inedita (ed è un eufemismo). Mi spiego. Egli, ordinario di diritto privato e avvocato, dal punto di vista scientifico è allievo di una “scuola” prestigiosa e professionalmente collabora con uno studio altrettanto prestigioso; da questo secondo punto di vista appartiene all’ambiente degli avvocati d’affari. Allora il punto è questo: la sua indicazione ha avuto origine dalla negoziazione di due soggetti privati, che ha scavalcato, in termini di puro fatto, la procedura costituzionalmente prevista per la formazione di qualsiasi governo. In più (e questo è il profilo davvero inquietante, che non viene sottolineato), in quanto prodotto di una negoziazione privata, ne segue che il soggetto che deve guidare un organismo pubblico-costituzionale, il Governo, è formalmente legittimato in chiave privatistica, come può esserlo l’AD di una SPA. Questo è un vulnus giuridico che colpisce alla radice il nostro ordinamento costituzionale, ma i nostri organi di informazione preferiscono il gossip delle indiscrezioni, perché è questo che paga. Ancora una volta, ed anche in un frangente così grave, si preferisce comunicare alle pance che richiamare l’attenzione delle teste.

Avevo scritto le righe che precedono prima degli eventi recentissimi che hanno portato al contestatissimo intervento del Presidente della Repubblica (bilanciato però da una altrettanto forte solidarietà). Ora, mi sembra di poter ribadire le serie perplessità già enunciate. Infatti, allorché il livello procedurale, che connota il contesto pubblico-ordinamentale (in questo caso “costituzionale”)” viene scavalcato da un pragmatismo negoziale, di natura giuridico-privatistica, il rapporto tra Istituzioni e forze politiche perde quella linearità e chiarezza normativa garantita dallo Stato di diritto.