DellaVedova gennaio deadend

Come è noto la Sinistra mondiale è in crisi di identità ed è necessario, quindi, proporre e trovare strade nuove alla rappresentanza del disagio e alla domanda di giustizia e libertà che siano diverse dal collettivismo, dal radicalismo demagogico o dal nazionalismo protezionista. Ricette, queste ultime, che premiano elettoralmente, infatti, gli autarchici e non i liberali, i populisti e non i marxisti.

A mio parere, dunque, non si può che partire da un socialismo declinato nel senso della libertà. E attenzione, non si tratta semplicisticamente di Terza Via ma dell’unica via verso un progresso declinato nel senso della persona, così come inteso non da Blair ma da Gaetano Salvemini e da Carlo Rosselli. Cosa, infatti, è più sociale del metodo liberale? Del principio di sussidiarietà che libera le forze compresse dal monopolio di ogni potere costituito ed arrogante ?

Il liberalismo – che trova la sua realizzazione nel pensiero democratico e socialista - è per il singolo e il suo libero associarsi contro la pervasività tanto dello del Leviatano pubblico che del Moloch delle rendite di posizione. E ciò perché come aveva ben inteso l’Hayek fautore dell’intervento redistributivo e, per ciò, promotore dell’imposta negativa: “chi detiene tutti i mezzi, controlla tutti i fini”. Ed ancora perché, come ben espresso da Wilhelm Röpke in Civitas humana (1943): lo Stato deve essere “forte e imparziale”, forte a tutela della libertà e, dunque, “forte ma non affaccendato”.

Esiste in tale contesto destrutturato e prettamente “critico” nel senso della dialettica ragionata della concretezza, una filosofia della storia precisa, chiara, semplice ed alternativa alla narrazione progressista ortodossa o a quella nuova neo semplicistica? Abbiamo bisogno insomma di nuovi testi sacri? Forse proprio in questo punto sta la novità e la radicale attualità di una posizione che vuole dirsi e farsi Sinistra accettando il naturale tramonto della nobile origine senza per questo gettarsi acriticamente nel flusso escatologico del tipo Veni Vidi Web. È la libertà il fulcro di una filosofia e di una prassi che non ha fini escludenti e i cui fini, parafrasando Bernstein, sono coincidenti con il moto sociale stesso diretto ad affrancarsi, attraverso l’impresa e l’operosità, dal bisogno. 

Quali ricette in concreto? Il lavoro, va ribadito, è la ricetta; il lavoro inteso come valore e collante dell’unità politica. Il lavoro che è uno con l’interesse dell’impresa e con la dialettica salariale, con i diritti dell’impiego, con la possibile partecipazione operaia alla gestione, all’utile. Tutte bestemmie per l’ortodossia marxista sconfitta dalla Storia ed oggi superata lungo la strada dell’Utopia/Distopia dal neo populismo destrorso, ma cosa significa in pratica? Che solo la legge, il diritto, il Nomos – e non l’astratta quanto pericolosa Giustizia palingenetica – garantisce sviluppo e libertà attraverso interventi ponderati e sostenibili che non arginino né interrompano ideologicamente le dinamiche sociali, libere di svolgersi all’interno di un contesto di garanzia che tuteli i più deboli, gli esclusi e all’interno del quale la dialettica capitale/lavoro sia spronata a produrre gli effetti proficui dello scontro, dell’incontro, della trattativa, del contratto.

Legge e contratto, dunque, perché solo l’imperio del diritto – in un contesto costituzionale – può consentire l’anarchia degli spiriti di cui parlava Luigi Einaudi. Anche, e perché no, l’anarchia fertile, plurale, sociale e pubblica della competizione tra scuole diverse, non solo statali, ma anche confessionali, laiche e diversamente ispirate, che sostanzi davvero il diritto naturale delle famiglie di scegliere liberamente – in anarchia, cioè nell’assenza di governo - i maestri dei lori figli senza subire il peso del monopolio di chicchessia.

D’altra parte, a tal proposito, proprio dibattendo di identità e Sinistra, come non ricordare il pensiero di due grandi esuli antifascisti: “Dalla concorrenza delle scuole private libere, le scuole pubbliche – purché stiano sempre in guardia e siano spinte dalla concorrenza a migliorarsi, e non pretendano neghittosamente eliminare con espedienti legali la concorrenza stessa – hanno tutto da guadagnare e nulla da perdere” (Gaetano Salvemini). “Ogni scuola, quale che sia l’ente che la mantenga, deve poter dare i suoi diplomi non in nome della Repubblica, ma in nome della propria autorità” (Luigi Sturzo).

Messa così la questione nel suo complesso, non penso davvero che l’on. Di Maio – reso edotto - avrebbe più potuto in maniera così arrogante vantare la trasversalità indifferentista del proprio partito, orgogliosamente qualificato come né di destra né di sinistra. A fronte di queste posizioni, infatti, il M5S è, invece, ontologicamente costretto a posizionarsi contro, a far emergere chiaramente la sua naturale e radicale opposizione alle politiche liberali e socialiste che hanno contribuito - dialetticamente - a strutturare quella pace e quel benessere occidentale che gli odierni alternativi/eversivi di tutto il Continente vorrebbero stravolgere, e ciò perché l’ideologismo è nemico della concretezza, del possibile e del bene ed è a favore del sogno allucinato, dell’impossibile e del meglio.

Io parlerei chiaramente di estrema destra, perché con questa categoria ancora utile si può sperimentare una disamina di posizioni apparentemente nuove ma riconducibili culturalmente al milieu dei primi anni del Secolo Breve europeo, a quella rivoluzione conservatrice scettica nei confronti del parlamentarismo ed allo stesso tempo statalista, interventista e securitaria nel senso “etico” di un potere, legittimato dal plebiscito, evocato a porre rimedio, costi quel che costi, alle imperfette dinamiche sociali. E questo perfettismo è sempre più l’avversario della Sinistra del Secondo Millennio.