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Con sentenza n. 11054 del 10 maggio scorso, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di divorzio. Questa volta però lo ha fatto lasciando tutti (giuristi e non) a bocca aperta.

I Giudici di Piazza Cavour hanno infatti superato il precedente e non discusso orientamento, che collegava la misura dell'assegno divorzile al parametro del tenore di vita garantito in costanza di matrimonio, indicando come diverso criterio di spettanza e di quantificazione quello dell’indipendenza o dell’autosufficienza economica dell'ex coniuge che lo richiede.

Sin dalle primissime ore dalla sua pubblicazione, la pronuncia è stata definita come una “rivoluzione” nel diritto di famiglia. Ma perché una rivoluzione? E con quali connotati?

Il perché, a parere di chi scrive, va ben oltre quanto potrebbe ad una prima analisi immaginarsi. Senza pretese di esaustività, con il termine rivoluzione si intende ogni processo storico, anche graduale, che finisca per determinare il mutamento di un assetto sociale o politico. Ebbene, quanto deciso con la pronuncia in esame rispecchia a pieno la definizione data: la sentenza non rappresenta (solo) un revirement giurisprudenziale, la rivisitazione di un precedente consolidato (resistito, come si dirà, nelle aule di tribunale per oltre ventisette anni!), ma descrive e recepisce l’evoluzione storico-culturale, prima ancora che giuridica, dei rapporti familiari nella nostra società.

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di comprendere, anche attraverso le parole utilizzate dalla Corte, la portata di questa novità. Nel farlo, occorre, anzitutto, partire dal dato normativo. In base alla legge sul divorzio del 1970, una volta sciolto il matrimonio, sulla base dell’accertamento giudiziale che la comunione spirituale e materiale dei coniugi “non può essere mantenuta o ricostituita”, il rapporto si estingue definitivamente tanto sul piano dello status personale, perdendo i consorti la connotazione di famiglia per tornare ad essere considerati alla stregua di persone singole, quanto su quello dei rapporti economici e, in particolare, del reciproco dovere di assistenza morale e materiale.

Sussiste comunque il diritto dell’ex coniuge che ne faccia richiesta ad ottenere un assegno periodico divorzile. Questo è condizionato al previo accertamento che il richiedente non abbia “mezzi adeguati” o comunque si trovi nell’impossibilità di “procurarseli per ragioni oggettive” (art. 5 L. n. 898/1970). Si tratta di una disposizione che, frutto della mediazione esercitata in Parlamento dalla Democrazia Cristiana, affonda la propria ragion d’essere nel dovere costituzionale di solidarietà, intesa in questo caso come tutela da apprestare alla parte economicamente debole del rapporto coniugale.

E qui ci avviciniamo al punto centrale della questione. Un dovere di contribuzione economica sussiste qualora una parte debole effettivamente ci sia. Questa considerazione, tanto semplice quanto scontata, per decenni è stata oggetto da parte della giurisprudenza di un’interpretazione, per così dire, elastica, che non di rado ha condotto i tribunali a ricercare nella coppia un soggetto debole ad ogni costo e “costi quel che costi” (al coniuge ritenuto “forte”).

Ed invero, a partire da una storica pronuncia della Cassazione del 1990 e sino all’arresto di pochi giorni fa, il parametro di riferimento al quale veniva rapportata l’adeguatezza o l’inadeguatezza dei mezzi del richiedente era individuato nel “tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”. Un criterio che conduceva, di fatto, ad una prosecuzione sine die del matrimonio, costringendo il rapporto coniugale (già sciolto) all’interno di una dimensione di “libertà in catene”.

A distanza di ventisette anni, la Cassazione cambia rotta. E lo fa in maniera netta. Ritiene, si legge, che il paramento del “tenore di vita analogo” “collida radicalmente con la natura stessa dell’istituto del divorzio”, perché ogni riferimento al matrimonio “finisce illegittimamente con il ripristinarlo … in una indebita prospettiva, per così dire, di ultrattività del vincolo”.

La Corte sottolinea la necessità di ricercare allora un nuovo e diverso criterio di assegnazione dell’assegno, che sia coerente con una visione di matrimonio “non più inteso come sistemazione definitiva”, essendo ormai pienamente condiviso nella società il suo significato di “atto di libertà e di autoresponsabilità”. E tale criterio non può che coincidere con la concreta situazione patrimoniale del richiedente, la cui valutazione passa attraverso il riscontro della sua “indipendenza economica” o della “effettiva capacità di raggiungimento” della stessa (in analogia rispetto a quanto avviene in sede di assegnazione dell’assegno periodico in favore del figlio maggiorenne non economicamente indipendente). Un parametro, quindi, espressamente ispirato al principio di autoresponsabilità anche economica delle parti.

A questo punto una domanda: quanto statuito rappresenta un cambio di rotta davvero radicale? Sul piano degli effetti che produrrà, probabilmente sì. Più in generale, però, la decisione costituisce la presa di coscienza giuridica di una realtà sociale già da tempo mutata.

Da un lato, come si diceva in premessa, essa raffigura il punto di approdo dell’evoluzione storica della concezione di famiglia. Una rivoluzione giurisprudenziale già iniziata da tempo, che trae abbrivio dal mutato sentire delle persone e dalle nuove istanze di libertà dei singoli e che, come spesso accade a fronte di un legislatore silente, si è spinta sino a coniare nuovi istituti giuridici poi tradotti in legge. Istituti nati ora a fronte di esigenze di eguaglianza (si pensi alle unioni civili tra persone dello stesso sesso), ora a fronte della richiesta di una maggiore flessibilità nello stare insieme rispetto ai vincoli del matrimonio (si pensi alle convivenze di fatto).

Dall’altro lato, e anche in questo la pronuncia rappresenta una interessante spunto di riflessione, essa descrive con chiarezza il nuovo (invertito) rapporto tra Stato e cittadino nel campo del diritto di famiglia, connotato non più dalla supremazia delle scelte statali su quelle della persona, ma dalla primazia della dimensione volontaristica e negoziale su quella pubblica.

Basti pensare che, quanto meno sino alla riforma del diritto di famiglia del ’75, era predominante la tesi che configurava il matrimonio (e i connessi atti di scioglimento del vincolo) come atto di diritto pubblico, in cui le volontà dei coniugi rappresentavano un mero presupposto di fatto rispetto alla volontà costitutiva impressa Stato nella persona dell’ufficiale di stato civile.

Oggi questa visione, se appare in linea teorica pienamente superata, sul piano concreto presenta ancora dei retaggi. In quest’ottica l’assegno divorzile parametrato al regime di vita goduto in costanza di matrimonio ne costituiva un chiaro esempio, di cui la Corte di Cassazione si è finalmente accorta.