Polis Aperta gay polizia

Da dodici anni un’associazione LGBT di funzionari di pubblica sicurezza, Polis Aperta, raccoglie le decine di segnalazioni annuali di discriminazioni e violenze in ambiente lavorativo e cerca di connettere la società, il mondo LGBT e le forze dell’ordine mettendoli in comunicazione attraverso iniziative e campagne di sensibilizzazione. L’impegno quotidiano di Polis Aperta si dirama su più fronti: dall’affiancamento legale nei casi più gravi e sensibili ai semplici consigli per dichiararsi e vivere al meglio la propria condizione in mezzo a colleghi e superiori. Abbiamo intervistato Alessandro, poliziotto in una città lombarda. Pur essendo gay dichiarato preferisce mantenere l’anonimato per una serie di motivi che lui stesso ci spiegherà nel corso del suo racconto. 

“Sbirro e frocio", essere omosessuale e indossare una divisa. Non saprei nemmeno da dove iniziare questa intervista.

Iniziamo da me. Essere un poliziotto gay non è facile, soprattutto quando devi fare i conti con te stesso, quando devi accettarti. Non è facile perché a tutto questo si aggiungono le dinamiche della vita da caserma. L’ambiente lavorativo cui faccio parte è un ambiente innanzitutto molto stretto, un ambiente in cui la propria vita privata si intreccia facilmente con quella dei colleghi: alla macchinetta del caffè, negli spogliatoi o nelle uscite notturne capita spesso di parlare della vita privata. Nelle prime fasi ti trovi quindi a dover affrontare la questione con te stesso, a dover lavorare sulla tua identità e sui rapporti con la famiglia. A questo si aggiunge la curiosità dei colleghi, in un ambiente tradizionalmente maschilista a machista, dove un ragazzo gay che veste una divisa fa scandalo, come se un gay fosse per forza meno virile e quindi svilente per il ruolo sociale che ricopre. Arrivi ad inventare luoghi, nomi e situazioni mai esistite per non farti scoprire, operi una vera e propria costruzione di una realtà che non esiste.

Come hai deciso di uscire allo scoperto?

Un giorno, nel 2007, ho avuto la brillante idea di portare un amico conosciuto in vacanza a casa per due settimane. Fu allora che i miei genitori mangiarono la foglia, l’albero e le radici. Un durissimo colpo per loro, che provengono da una tradizione profondamente cattolica: oggi va meglio, è un percorso che coinvolge tutti e di cui si possono apprezzare i progressi, ma i passaggi sono stati duri; sono arrivati a credere che io fossi "confuso", o fossi stato raggirato da qualcuno, che potessi impegnarmi per superare la cosa. Ma “la cosa” sono io, sarebbe un torto superare me stesso. Più o meno nello stesso periodo la maschera cominciava a starmi scomoda. Una sera in cui ero di pattuglia, senza un particolare motivo, dissi a un caro collega tutta la verità. Mi abbracciò, mi disse che era felice che mi fossi aperto. A ruota lo confidai ai colleghi più stretti. Ammetterlo al mondo si definisce coming out, una cosa diversa dall’outing, che avviene quando è la gente attorno a te a rendere nota la tua omosessualità. Sapevo che facendo coming out gli altri avrebbero fatto outing: è normale, quando hai qualcosa di grosso per la testa il peso è forte, e vuoi condividerlo. Non mi sono arrabbiato.

Adesso com’è il rapporto con i tuoi colleghi?

Prima non era facile, capitava che entrando negli spogliatoi calasse un silenzio tombale, lì capivo che stavano parlando di me. Oggi partecipo alle battute con loro, mi sento rispettato. Soprattutto dai superiori.

Ed è così che incontri Polis Aperta. Sono un profano: di cosa si tratta?

Polis Aperta nasce nel 2005 e fa parte di una rete europea più ampia, l’European Gay Police Associacion. In poche parole stiamo parlando di un’associazione che offre supporto e promuove campagne di sensibilizzazione nella società e nelle istituzioni per portare il mondo Lgbt anche nelle caserme. Un lavoro costante di elaborazione di statistiche, report, raccolta di denunce e studi sul sommerso.

Sommerso?

Facciamo un esempio: un ragazzo gay che ha una professione, nelle forze dell’ordine come in altri ambienti della società civile, ha una vita privata come tutti. Potrebbe frequentare locali o luoghi a tema LGBT. Potrebbe quindi subire discriminazioni o vere e proprie aggressioni, divenatre un bersaglio facile. Denunciare lo esporrebbe a un outing, in un contesto reso già pesante dalla violenza subita. Così, per la paura di non essere accettato, c’è una buona possibilità che preferisca non proferire parola in merito, che scelga di rendersi complice dell’omertà intorno a gravi fatti di omofobia. Accade ovunque non ci sia cultura della tolleranza: l’educazione deve essere coltivata anche nelle caserme. Credo sia fondamentale.

Dodici anni di attività di Polis Aperta. A che punto siamo?

Ogni giorno un passo in avanti. I primi incontri dell’associazione venivano fatti da un gruppo di una decina di componenti. Erano stati gli olandesi, quelli più aperti, a consigliare di costituire un’associazione. Al tempo si pensava fosse una follia, forse un po’ lo era. Le prime riunioni sembravano più incontri carbonari, fatti in gran segreto a casa degli iscritti, a turno. Nel 2008 ci fu la prima riunione aperta, un disastro: c’era la Digos a controllarci e tutti ne uscimmo molto spaventati. Quest’anno, a dodici anni dalla fondazione, siamo più di cento associati, un numero in costante crescita. Due anni fa abbiamo fatto la riunione annuale a Roma, alla DIA, nel cuore pulsante della Polizia italiana, l’anno prima all’OSCAD (Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori) con cui collaboriamo con frequenza. Siamo sempre accolti dalle istituzioni e possiamo partecipare agli incontri in divisa: avere questa autorizzazione è per noi un onore. Insomma, siamo da qualche tempo riconosciuti e riconoscenti. Nell’ultima edizione c’era anche un soldato israeliano transgender e intorno a noi è stato predisposto un cordone di sicurezza del reparto mobile e della Digos: siamo passati da "controllati" a "tutelati".

Cosa vuol dire nel 2017 essere gay e poliziotto?

Oggi le caserme si stanno adattando. Esistono, grazie alla collaborazione con l’OSCAD, coordinamenti specializzati nel raccogliere le denunce: veri e propri pool simili a quelli costituiti contro la violenza sulle donne, specializzati nella raccolta di testimonianze di vittime delle discriminazioni omofobiche. C’è poi un cambiamento visibile solo agli addetti ai lavori: la legge sulle unioni civili ha imposto un cambiamento nei regolamenti interni per ciò che concerne la gestione del personale in materia di congedi, mobilità ecc… Un cambiamento epocale che fa rima con "riconoscimento”.

Brutalmente: la società là fuori è pronta per voi?

La società là fuori è più avanti della politica e delle caserme, con le dovute sfaccettature. Ho imparato che la società se riconosce una brava persona nel tempo la apprezza. Ogni giorno potremmo parlare con un avvocato, un medico o con un operatore postale gay senza saperlo. Ma soprattutto senza la certezza che lo verremo mai a sapere. Ciò che conta è la professionalità del servizio e questo dipende da persona a persona. Tutto il resto appartiene alla sfera della vita privata e lì dovrebbe rimanere.

Qualcuno potrebbe dire: lotti per il riconoscimento dei diritti LGBT, perché vuoi mantenere l’anonimato?

Lo faccio per la mia famiglia. Siamo in una fase di transizione, tra non molto ci guarderanno tutti come oggi guardiamo le suffragette: come persone che hanno dato una spinta al progresso per ottenere dei diritti. Diritti che in futuro daremo per scontati. I miei sanno che sono gay ma non apprezzerebbero la mia esposizione mediatica. Non sono cattivi, sono solo figli di un’altra epoca e di un’altra visione. Porto avanti un messaggio, non un volto, e così cerco di rispettare anche le loro esigenze. Essere omosessuale non è un fardello in sé, purtroppo lo diventa quando si entra in relazione con la chiusura mentale altrui”.

Ultima domanda: ho preso una multa l’altro giorno. Non è che si può fare qualcosa?

No.