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Domani sarà un giorno particolare per la monarchia britannica: la Regina Elisabetta diventerà la sovrana più a lungo in carica nella storia del paese, superando il primato finora detenuto dalla Regina Vittoria.

Un regno così lungo, 63 anni, fa sì che con Elisabetta II non solo si identifichi l’immagine della Gran Bretagna dal dopoguerra ad oggi ma anche, a livello globale, l’immagine stessa dell’istituto monarchico. 
Nel mondo ci sono tanti re e tante regine, ma per la cultura popolare la Regina è solo lei ed è inevitabile che per una figura così mediatizzata, che ha accompagnato con dignità e bonarietà tre generazioni, si provi un minimo di affetto, a prescindere dalle simpatie di ciascuno in materia istituzionale.

In ogni caso, al di là della persona, può essere interessante fare una riflessione sul senso della monarchia nel ventunesimo secolo.
 Ha ancora una qualche funzione oppure al contrario è un semplice retaggio storico destinato prima o poi ad esaurirsi a fronte della superiorità dell’istituto repubblicano? 
Qualche punto a suo favore la monarchia britannica certo lo segna subito: c’è la bellezza delle tradizioni, c’è l’aspetto tutt’altro che trascurabile dell’attrazione turistica e poi – diciamolo pure - c’è il positivo indotto per il mondo del gossip.
 Tuttavia, al di là di tutto questo, vale la pena chiedersi se ci sono argomentazioni per affermare nel ventesimo secolo una difesa politica della monarchia inglese e più in generale dell’istituto monarchico come si è configurato in Occidente - che cosa c’è di buono oggi nella monarchia e cosa può renderla una forma istituzionale competitiva in grado se non di espandersi quanto meno di preservarsi laddove oggi sussiste.

Innanzitutto un merito importante della moderna monarchia occidentale è il fatto di presentarsi come “super partes” - quindi in grado di rappresentare le istituzioni in modo neutrale rispetto alle tradizionali contrapposizioni della politica.
 Per quanto possa apparire in contraddizione con la natura intrinsecamente esclusiva della linea di successione, un re oggi è in grado di impersonare l’unità e la solidarietà di una nazione più di quanto non lo possa fare un politico eletto. Come evidenziano i sondaggi, la Regina Elisabetta gode di un sostegno molto più ampio e trasversale presso la popolazione di qualsiasi capo di stato repubblicano che paga il fatto di essere diretta emanazione della dinamica politica.


Basta pensare, in fondo, a quante polemiche in Italia sono associate da tempo all’operato del Presidente della Repubblica, una figura che dovrebbe essere di garanzia, ma che è eletto sulla base di una precisa maggioranza parlamentare e persegue - o comunque è accusato di perseguire – una propria agenda politica, ancorché non dichiarata.
 Alcune presidenze, come quelle di Leone, di Cossiga, di Scalfaro e di Napolitano si sono rivelate particolarmente controverse, al punto che settori importanti del paese non erano nelle condizioni di riconoscere all’inquilino del Quirinale una legittima rappresentanza dell’”unità nazionale”.
 Per certi versi è addirittura ironico come Napolitano, per la sua regia politica nella formazione dei governi Monti e Letta, si sia guadagnato dalla stampa l’appellativo di “Re Giorgio”, quando invece mai nelle monarchie d’oggidì un sovrano si potrebbe permettere un simile interventismo nella contesa politica.

Peraltro, la presenza di una figura al di sopra delle parti è alla base di un altro concetto liberale legato all’istituto monarchico, cioè il principio della limitazione del potere politico.
 In una monarchia nessuna parte politica può occupare tutte le istituzioni e quindi conquistare tutto il potere. Attraverso le elezioni si può arrivare a formare il governo, ma non ad assumere il controllo dello Stato, né si può conseguire il diritto ad incarnare lo Stato. 
L’esistenza di una carica alla quale nessun cittadino comune può accedere non va interpretata in negativo, come una limitazione della democrazia, ma invece deve essere letta in positivo, come l’affermazione della supremazia del governo della legge (“rule of law”) sul governo degli uomini.


La visione monarchica è una visione consuetudinaria. Si fa come si è sempre fatto e l’attenersi ad un solco ben definito rappresenta un argine alla discrezionalità del potere. 
La Regina non si sognerebbe di nominare un premier che non fosse il leader del partito che ha ottenuto più seggi; a nessuno in Gran Bretagna verrebbe in mente di fare un “ribaltone” e di portare al potere un governo di colore opposto; non esistono da quelle parte formule estemporanee come il “governo tecnico”, il “governo istituzionale”, il “governo del presidente” e così via; e nessun governo si permetterebbe di cambiare al volo la legge elettorale per avere più chance all’elezione successiva, come invece è capitato disinvoltamente da noi.

La differenza tra la monarchia (britannica) e la repubblica (italiana) è che nella repubblica è sempre tutto permesso perché “il parlamento è sovrano” e quindi non esistono freni inibitori rispetto all’utilizzo “ad hoc” delle prerogative del comando. Nella visione monarchico-liberale, invece, almeno idealmente, non tutto è permesso, perché “sovrano è il diritto” e quindi esiste un quadro di regole e di garanzie che si collocano al di sopra della disponibilità dei politici.



Va detto poi che la monarchia britannica aggiunge ai suoi altri meriti anche quello di essere una delle poche istituzioni al mondo ad aver fatto serenamente i conti con il principio di autodeterminazione.
 La monarchia non rappresenta uno strumento in mano a chi sostenga progetti di centralismo istituzionale. La fedeltà alla Regina non ha niente a che fare con la retorica patriottarda alla quale siamo abituati in Italia; non è funzionale all’imposizione di appartenenze forzate, solidarietà coatte e giganteschi meccanismi di redistribuzione della ricchezza tra i territori.
 La Regina, infatti, non solo non entra nel dibattito destra-sinistra; non entra nel dibattito centralismo-decentralizzazione e non entra neppure nel dibattito tra unità ed indipendenza. 
Elisabetta II è a capo di diciassette Stati assolutamente indipendenti. La Scozia, se fosse prevalso il sì al referendum dello scorso autunno, sarebbe stato il diciottesimo. 
Il fatto che si possa essere, al tempo stesso, “nazionalisti scozzesi” e “monarchici” è la dimostrazione del carattere effettivamente apolitico della monarchia britannica. Se da noi ogni simbolo nazionale è eternamente divisivo ed ogni “festa nazionale” è festa di una parte del paese contro l’altra, nel mondo anglosassone la Regina è un patrimonio culturale che appartiene a tutti, quanto la lingua inglese, Shakespeare o il cricket.

Per queste ragioni l’equilibrio istituzionale garantito dalla monarchia nel Regno Unito – pur non necessariamente esportabile in altri contesti – è positivo ed efficiente e per il futuro ha quanto mai senso augurarsi che Dio salvi la Regina ed i Re che le succederanno.