Gli scenari della "guerra alla droga" stanno cambiando rapidamente: se gli Stati Uniti sembrano aver invertito la rotta, desiderosi, se non di una pace perpetua, almeno di un armistizio, altri Paesi sono pronti a prendere il loro posto al comando del fronte proibizionista, in sede ONU e fuori. In un recente articolo, l'Economist fa una panoramica su quelli che definisce "The new drug warriors", sottolineando come la maggior parte degli Stati che continuano a fare della guerra alla droga una bandiera lo faccia a scapito dei diritti umani fondamentali.

cannabis coltivata

Fino a qualche anno fa, sostiene il settimanale inglese, gli Stati Uniti, in prima linea nella "War on drugs", influenzavano in maniera molto decisa le politiche proibizioniste di altri Stati, rifiutando loro aiuti e cooperazione qualora non si dimostrassero abbastanza zelanti: "Nel 2006, in Messico, il Parlamento votò per depenalizzare il possesso di quantità di droga anche elevate, ma il presidente messicano dell'epoca, Vicente Fox, inizialmente a favore di questa proposta di legge, si vide costretto a porvi il proprio veto, dopo che George W. Bush chiarì che la depenalizzazione avrebbe compromesso qualunque speranza di una riforma dell'immigrazione negli Stati Uniti."

Ora però, continua l'Economist, "l'incoerenza delle attuali leggi in materia di droga costringe gli USA ad ammorbidire le proprie posizioni. La marijuana è proibita dal governo federale, ma legale in un certo numero di stati", e conciliare la tendenza legalizzatrice interna col sostegno alle convenzioni ONU di ispirazione proibizionista, fortemente volute in passato dagli stessi Stati Uniti, diventa sempre più difficile. Questo cambio di orientamento porta con sé una domanda: è l'ora di riformare le convenzioni ONU in senso antiproibizionista, legalizzando alcune droghe e trattando le altre, quelle più nocive, come un problema di salute pubblica, più che di ordine criminale o militare? Le cose purtroppo non sono così semplici: i nuovi "drug warriors" appaiono ben più agguerriti dei precedenti.

Solo il 29 aprile scorso, in Indonesia, otto detenuti (di cui ben sette stranieri) colpevoli di reati connessi alla droga sono stati giustiziati da un plotone di esecuzione: il presidente Joko Widodo, in carica da nemmeno un anno, si dichiara sostenitore della linea dura su questo tipo di reati, e durante il suo mandato le esecuzioni sono state 14, più del doppio di quelle dei precedenti 15 anni.

In Iran, invece, il possesso di alcuni tipi di droghe in quantità superiori a 30 grammi è punito con l'impiccagione: 241 sono le condanne a morte eseguite finora nel 2015, e il trend è crescente. Tra queste esecuzioni spiccano quelle, esemplari, di giovanissimi trafficanti afgani, alcuni poco più che quindicenni, i cui cadaveri sono stati lasciati impiccati lungo il confine tra l'Iran e l'Afghanistan, a mo' di monito. L'Arabia Saudita, bontà sua, punisce i trafficanti di cannabis (una droga che, ricorda l'Economist, non può essere ritenuta scientificamente colpevole neanche di una singola morte) col taglio della testa.

Singapore e la Malesia, per contro, avendo ridotto di molto o eliminato di fatto le esecuzioni per droga, sono esempi di una tendenza opposta, che però, almeno per il momento, risulta minoritaria tra i Paesi emergenti.

In prima fila tra i nuovi alfieri della guerra alla droga, l'Economist cita la Russia di Putin, che, secondo alcune ONG tra cui il Transnational Institute, ha praticamente preso il posto degli Stati Uniti in questo campo, non solo applicando politiche proibizioniste sul proprio territorio, ma cercando di influenzare gli Stati vicini. Anche se in Russia non c'è pena di morte per i reati connessi alla droga, le leggi sono molto restrittive: vietano completamente, ad esempio, l'uso del metadone, che in molti Paesi viene somministrato agli eroinomani in ottica di riduzione del danno, per evitare che muoiano di overdose o si scambino le siringhe aumentando il rischio di contrarre l'AIDS.

Quando, nella sua politica espansionistica non contrastata seriamente da nessun Paese occidentale, la Russia ha deciso di annettere la Crimea sottraendola all'Ucraina, le strutture sanitarie di quella regione hanno immediatamente smesso di somministrare il metadone agli eroinomani che avevano in cura, col risultato che molti si sono "riconvertiti" all'eroina o hanno scelto addirittura il suicidio.

I frutti di questa politica sono evidenti, e pericolosi: i sieropositivi in Russia oggi sono 1 milione e 200mila, contro i 170mila di dieci anni fa.

La Cina di Xi Jinping, dal canto suo, nei primi mesi del 2014 ha visto aumentare le condanne per i reati di droga di un 27% rispetto al 2013, e punta a inasprire controlli e sanzioni a livello mondiale. Nel mese di marzo ha presentato all'ONU una mozione per vietare a livello mondiale, come è già vietato sul territorio cinese, l'uso della ketamina, un potente anestetico spesso usato come droga. La mozione è stata ritirata all'ultimo, dato che l'OMS classifica la ketamina tra i medicinali essenziali, ma molti Paesi africani, dove procurarsi altri anestetici è molto difficile, stavano già temendo per il futuro della propria sanità.

"Altri "guerrieri" emergenti - scrive l'Economist - sono l'Egitto, dove le dipendenze vengono trattate come forme di malattia mentale; il Sudafrica, dove l'improvvisa popolarità di una nuova droga chimica "casalinga", chiamata whoonga, ha gettato nel panico le autorità e portato a un inasprimento delle politiche proibizioniste; Cuba, dove l'isolamento e l'efficiente polizia segreta hanno tenuto a freno i consumi e incentivato a continuare sulla strada del proibizionismo, piuttosto che prendere atto del suo fallimento".
Per l'India, invece, le campagne antidroga in sede ONU sono spesso un pretesto per sconfiggere la concorrenza dell'oppio afgano anche sul mercato legale, quello farmaceutico.

Ma, se sia l'OMS sia l'UNDP (United Nations Development Programme) hanno, ormai in varie occasioni, fatto presente all'ONU che l'approccio proibizionista è un fallimento sia sul piano sanitario che su quello criminale, come mai l'approccio "poliziesco" alla War on Drugs continua ad avere appeal a livello internazionale?
Il problema, sostiene l'Economist, è che l'UNODC (UN Office on Drugs and Crime), l'agenzia ONU che si occupa delle politiche sulla droga, basa il proprio budget sulle donazioni fatte dai singoli Stati, e conforma di conseguenza le proprie azioni, arrivando addirittura - sostengono alcuni - a finanziare il programma di contrasto al traffico di droga che, in Iran, ha portato alle già citate impiccagioni.

Il sospetto pare confermarsi esaminando le donazioni degli ultimi anni: se in passato gli Stati Uniti e l'UE erano responsabili di pressoché tutti i finanziamenti all'UNODC, adesso il 40% dei finanziamenti viene dai "new warriors", e, grazie a questi, il budget dell'agenzia è pressoché raddoppiato negli ultimi 10 anni.

Donazioni UNODC

Nel 2010, lo stesso anno in cui la Russia ha donato 7 milioni di dollari all'UNODC, a capo di quest'ultima è stato nominato (fatalità?) un funzionario russo, Yuri Fedotov; i tre precedenti nominati alla stessa carica erano tutti italiani, e negli stessi anni proprio dall'Italia sono arrivate le maggiori contribuzioni a fondo perduto all'agenzia.

In sostanza, dice l'Economist, l'UNODC riceve la maggior parte dei finanziamenti da Paesi interessati a mantenere in vigore politiche proibizioniste, e per questo continua a prescindere dall'approccio antiproibizionista ormai consolidato in altri ambiti.

A questo si aggiunga che la Commission on Narcotic Drugs dell'ONU, responsabile del policy making sull'argomento, può prendere decisioni solo all'unanimità dei suoi 53 membri, e ciò rende molto difficile, se non impossibile, cambiare l'approccio alle droghe da criminale a medico: è ancora in forse l'approvazione di una risoluzione che cita la "riduzione del danno" - termine che, come sa chiunque si occupi anche marginalmente dell'argomento droghe, ormai è invalso nell'uso da anni.

Nell'aprile del 2016 si terrà una sessione speciale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, convocata dai Paesi latinoamericani frustrati dall'inefficacia del proibizionismo, per discutere sui possibili nuovi approcci alla questione. L'ultima volta che si è discusso in quella sede, ogni tentativo di dibattito serio fu bloccato dagli Stati Uniti. "Ora - conclude l'Economist - bisogna vedere se la sessione dell'anno prossimo sarà più fruttuosa, o se i "new drug warriors" condanneranno il mondo a perdere altri decenni a combattere una guerra inutile, perché impossibile da vincere".