marijuana foglia

(Public Policy/Stradeonline.it) Il Messico, come sappiamo grazie a innumerevoli film, serie tv e articoli, è sempre stato il primo fornitore della marijuana consumata negli Stati Uniti. I tentativi di scardinare il traffico di sostanze illegali fra i due Paesi, su un confine già celebre per i tentativi di immigrazione spesso respinti con la violenza, hanno lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue e guerriglia.

I soldi guadagnati dai cartelli della droga sono loro serviti ad armarsi sempre più pericolosamente e a produrre sempre più sostanze proibite, in una vera e propria guerra di cui, fino a pochi anni fa, era difficile vedere una possibile fine.

Tuttavia, racconta il sito Vox.com riprendendo un’inchiesta del Los Angeles Times, dove non riuscirono le armi, poté il mercato: sembra che le cose, almeno per quanto riguarda la marijuana, stiano cambiando. Da quando alcuni stati degli USA hanno legalizzato sia il consumo che il commercio e la coltivazione della cannabis, infatti, il volume dei traffici con il Messico è letteralmente crollato, lasciando i trafficanti quasi completamente privi di uno dei maggiori introiti che avevano (la cannabis, secondo i dati citati da Vox, rappresenta mediamente dal 20 al 30 per cento delle entrate dei cartelli messicani).

Sana concorrenza e leggi di mercato, insomma: autorizzare la coltivazione e la vendita della cannabis a livello nazionale ha reso poco conveniente negli USA l’importazione dall’estero e le relazioni commerciali con agenti equivoci come quelli dei cartelli, senza contare la miglior qualità dell’erba coltivata negli USA da agricoltori specializzati. Pare che, in Messico, il prezzo al coltivatore di un chilogrammo di marijuana, in un solo anno, sia sceso da 100 a 30 dollari.

L’articolo di Vox prosegue constatando come, negli ultimi decenni, il prezzo della guerra alla droga ostinatamente combattuta dagli Stati Uniti sia stato pagato soprattutto dal Messico (e dall’America Latina in generale, ma questo sarebbe un discorso troppo ampio), in termini di vite umane perdute, criminalità rampante, sottosviluppo cronico e mancanza di stabilità: un’economia che si regge essenzialmente sul traffico illegale di sostanze stupefacenti nel potentissimo Paese confinante non aiuta certo la società a svilupparsi in maniera armonica e duratura. Questo, a sua volta, porta le istituzioni ufficiali a non avere forza sufficiente per combattere i trafficanti, che così acquisiscono sempre più potere, indebolendo sempre di più la società, destabilizzando ulteriormente l’economia e così via.

Il paradosso, evidenzia Vox, è che gli USA, di fatto, hanno portato avanti per anni una doppia morale per cui dal lato "ufficiale" richiedevano, all’interno ma soprattutto all’esterno, il massimo rigore nel portare avanti la guerra alla droga, ma dall’altrolato, quello clandestino, dato che erano il Paese a più alto reddito procapite dell’area, rappresentavano un mercato troppo appetibile e sempre più grosso per gli stupefacenti provenienti dal Messico e dalla Colombia.

Ora che la politica statunitense in materia di droghe sembra aver cambiato stabilmente verso, questo circolo vizioso potrebbe interrompersi: certo, non basterà la legalizzazione della sola marijuana a sgominare definitivamente i trafficanti (molti cartelli si stanno già riconvertendo agli oppiacei per continuare a fare affari), ma sicuramente togliere loro una fetta di mercato rilevante come quella della cannabis è un colpo non indifferente. Un colpo che, peraltro, negli anni della tanto dura quanto inutile “guerra alla droga” ci si poteva soltanto sognare.

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