cultura grande

Tempo fa, com’è in uso nei piccoli centri, un paio di candidati di una lista civica venne a casa mia per chiedere il voto. Ci fermammo a scambiare qualche opinione e, mentre gli ospiti attaccavano a testa bassa le inadempienze dell’amministrazione uscente, io tentai di operare qualche distinguo.

Gli dissi, per esempio, che la giunta ancora in carica aveva un merito non grande, ma indiscutibile: quello della valorizzazione dei beni culturali e dell’attività degli intellettuali presenti sul territorio, ossia la promozione di eventi a tema letterario, archeologico ecc. Quel che gli si poteva e doveva rimproverare, però, era la mancanza – questa, sì, grave – di tutela di quei beni e di quell’attività, ovverosia l’assenza di una vera e propria progettazione della vita culturale del paese.

Uno dei miei interlocutori rispose: «Tutto questo, però, è avvenuto coi soldi dei cittadini. È a noi che vengono a mancare, i fondi destinati a queste attività». Il lettore capirà che, di fronte a una replica del genere, sentirsi cadere le braccia è la cosa più ovvia che può accadere. In ogni caso, mi feci coraggio e provai a spiegargli che, se si concepisce la cultura come un investimento, i soldi bisogna spenderli. Del resto, cosa costerà di più: qualche evento culturale o l’edificazione qualche eco-mostro destinato a marcire in chissà quale area del paese?

L’altro candidato – per l’esattezza: era una donna –, capendo che quello non era il miglior modo per farsi campagna elettorale, si affrettò a dire: «Ma no! Ma no! Noi non siamo assolutamente contrari alla cultura! Noi siamo per la valorizzazione!». Ancora una volta il lettore capirà il mio senso di impotenza. Avevo appena finito di dire che limitarsi alla valorizzazione della cultura era il principale limite dell’amministrazione uscente e lei, per tutta risposta, mi diceva che la valorizzazione era il fiore all’occhiello della loro programmazione in materia!

La lista a cui appartenevano quei due candidati, in quell’occasione, perse malamente le elezioni. In seguito, però, le ha vinte e ha tenuto fede alle parole della mia interlocutrice donna: ha puntato su una valorizzazione spicciola, in piena continuità coi suoi predecessori.

Ora, capisco che, di fronte a storie di questo tipo, il lettore potrebbe seccarsi, ritenendole faccende provinciali legate a qualche paesino del Lazio meridionale. Per evitare di dargli noia, dunque, dirò che cose del genere mi sembra possibile vederle in molte zone del nostro Paese e, soprattutto, nel Mezzogiorno. Si pensi all’affidamento selvaggio dei beni culturali ai privati, i quali spesso e volentieri fanno sì che meravigliosi castelli e abbazie medievali diventino la location ideale per ospitare sontuosi pranzi di matrimonio. Oppure, ancora, si pensi ai centri storici che, per due settimane all’anno, vengono trasformati in magici villaggi di Babbo Natale, della Befana o di chicchessia.

L’idea che la cultura debba essere valorizzata, insomma, sembra essere diventata l’unico lasciapassare utile a legittimare un qualche discorso relativo alla sua pubblica utilità. Il che è un po' come dire che, quando si parla di letteratura, archeologia, filosofia ecc., bisogna spendere poco. Possibilmente niente.