A fine maggio si vota in sette regioni e in più di mille comuni. 17 milioni sono gli italiani chiamati alle urne. Il presidente del consiglio rinvigorisce la strategia dell'ottimismo e intensifica i suoi messaggi: vede l'Italia che riparte, il PIL che torna a crescere, il debito pubblico che si assesta. Parla di una legge di stabilità senza "né tagli né tasse" (tanto varrebbe ribattezzarla "legge di staticità"). E la parola d'ordine, apprendiamo, è diventata "basta sacrifici".

renzi fassino tesoretto

Nella realtà, le variazioni del PIL sono previste nell'ordine dei decimali, o comunque confinate a un misero 1 per cento. Per quanto riguarda il debito pubblico, si starà pure assestando come vogliono far credere, però sempre al 130 per cento del PIL rimane. Non sono segnali da spacciare con toni euforici. Ma, a quanto sembra, la realtà importa ben poco.

Il Def 2015 non poteva passare indenne questa contingenza politica. Puntualmente è ricomparsa persino la parola "tesoretto". Si parla di una dote di circa un miliardo e mezzo di euro - ricavata, pensate un po', dall'aumento di 0,1 per cento del deficit pubblico. Viene quasi da domandarsi: sarebbero questi i miracoli della flessibilità di bilancio? È questo il bottino della famosa vittoria contro l'austerità?

Per il momento il governo si riserva di impiegare la piccola dote come meglio crede. Di certo c'è che verrà spesa. Probabilmente servirà ad allargare la platea degli "80 euro", che per l'appunto sono spesa pubblica corrente (questo è bene non dimenticarlo). Ma che fine ha fatto la spending review?

Anche la diatriba tra governo ed enti locali sull'ipotesi di tagli ai bilanci delle regioni e dei comuni è durata lo spazio di un mattino. Pareva l'incipit di un lungo braccio di ferro e invece si è chiusa in un paio di giorni. Giusto il tempo di un incontro con Renzi a Palazzo Chigi.

Inguaiare sindaci e governatori ora, alla vigilia delle elezioni amministrative e regionali, evidentemente non è una buona mossa. I bastoni tra le ruote, alla macchina dei sogni, li mette già la realtà, e non è il momento di aggiungere benzina sul fuoco. Peraltro, molti di questi enti sono guidati proprio da esponenti del partito di maggioranza. Meglio, semmai, rimandare tutto a ottobre, con la legge di stabilità 2016.

Quest'anno, dunque, la commedia degli enti locali "al verde", che accusano il governo di tirchieria, la vedremo tutta in autunno. Non in due atti come al solito (uno a primavera con il documento di programmazione e l'altro in autunno con la legge di stabilità). Quello che abbiamo visto con il Def 2015 è solo un trailer.

A guardare bene, questo scorcio di legislatura mette in chiaro i due grandi vizi della politica finanziaria italiana, oltre all'incapacità della politica di riformarsi e di riformare. Un vizio è la tentazione di spendere sempre "tesoretti". L'altro vizio, peculiare degli enti locali, è di presentare, sempre e comunque, spese a pie' di lista (la cosiddetta "finanza derivata degli enti locali").

La storia della politica finanziaria italiana è cosparsa di tesoretti. Il nostro bilancio pubblico è sempre stato gestito in modo pro-ciclico. I soldi dei contribuenti sembrano bruciare nelle tasche dei politici: quando ci sono, vengono spesi subito e male. Salvo poi chiedere ai governi tecnici manovre correttive per rimettere a posto i conti. Per il miliardo e mezzo a disposizione di Renzi, usare il termine "tesoretto" è anche un tantino improprio. A quanto pare, non si tratta di risorse prodotte dalla crescita economica o da un sopravveniente maggior gettito fiscale, ma di spesa pubblica corrente in più, fatta in deficit. Insomma, questa volta il tesoretto nemmeno c'era. Se lo sono inventato. Forse è per questo che si sono affrettati a rinominarlo "bonus Def". Un altro termine da aggiungere al vocabolario storico della finanza creativa italiana.

Che dire, poi, della commedia sui tagli alle regioni e agli enti locali? Viene replicata anno dopo anno pressoché identica, a parte le cifre. Anche il risultato alla fine è sempre lo stesso: spesa pubblica immutata, sprechi inclusi, e più tasse per i cittadini. Insomma, nella diatriba del governo contro gli enti locali, tra i due litiganti il terzo non gode mai. Il terzo, cioè il contribuente, ci rimette sempre di tasca sua.

A testimoniarlo, tanto per fare un esempio, sono gli aumenti delle addizionali IRPEF di cui regioni e comuni si sono serviti in larga misura per far quadrare i propri bilanci.

Solo per dare qualche numero, in tre quarti dei comuni capoluogo di provincia l'aliquota dell'addizionale è fissata al suo valore massimo. Sono pochissimi quelli che l'hanno ridotta dopo lo sblocco del 2011. E questo non basta. Sono sempre più frequenti i casi di sindaci che per far quadrare i bilanci aumentano gli incassi sfruttando le multe, magari intensificando l'uso degli autovelox. E che dire, poi, della proposta dell'ANCI di istituire una nuova addizionale sui diritti di imbarco negli aeroporti?

Nelle regioni, dove incombono anche la gestione della sanità e l'onere dei relativi disavanzi, gli incassi delle addizionali sono cresciuti a dismisura negli ultimi anni. Fino al 2010 l'aliquota poteva oscillare tra lo 0,9 per cento e l'1,4 per cento. Dal 2014, dopo ripetuti ritocchi normativi, va da un minimo di 1,23 per cento a un massimo di 2,33 per cento. Nel solo 2015 gli aumenti di gettito stimati con le nuove addizionali regionali vanno dal 7 per cento a quasi il 50 per cento. Maglia nera alla regione Lazio.

Per farla breve: tutto, ma tagliare la spesa no. Eppure di spazi di manovra ce ne sarebbero. I comuni, ad esempio, per far quadrare i conti potrebbero cominciare con la chiusura delle numerose partecipate inutili. Il capitalismo municipale ha raggiunto la dimensione monstre di oltre 8 mila società partecipate, con un costo complessivo di oltre 20 miliardi di euro all'anno. Buona parte di queste aziende serve soltanto a garantire stipendi e gettoni agli appartenenti al giro della politica. In effetti, sono molti i casi di società pubbliche che hanno più consiglieri di amministrazione che addetti. Se ne contano ben 2000 che di addetti non ne hanno proprio, hanno solo consiglieri di amministrazione. E non è ben chiaro cosa si aspetti ancora a chiuderle.

Ma gli enti sostengono di essere soffocati dai tagli di spesa. Di non poter chiudere i bilanci. Gli scenari evocati a volte sono apocalittici (interruzione di servizi di trasporto locale, code di cittadini in attesa davanti a uffici comunali chiusi e peggio ancora). Il presidente dell'ANCI, Fassino, nei giorni scorsi ha sottolineato in modo colorito che i comuni i soldi non se li vanno a giocare al casinò. Li impiegano in servizi essenziali per la cittadinanza. Evidentemente l'eco dei piccoli e grandi scandali sui rimborsi, sugli appalti, e sui tanti sprechi che hanno investito regioni, importanti città ed enti locali si sta già spegnendo.

Per oltre quindici anni due parole hanno tenuto banco nel dibattito politico italiano: federalismo e decentramento. Doveva essere la riforma delle riforme. E probabilmente lo sarebbe stata. Oggi è raro sentirne più qualcuno parlare. E la riforma, dal canto suo, è rimasta un processo incompiuto. Molto poco è cambiato rispetto al sistema della finanza derivata. I vecchi trasferimenti sono diventati compartecipazioni al gettito erariale. Il poco margine di manovra sulle entrate tributarie a disposizione di regioni e comuni, cioè le aliquote delle addizionali, viene usato, tutto sommato, obtorto collo. Regioni e comuni sanno, alla fine, di poter contare su un sistema di bailout.

Una vera riforma federale avrebbe dovuto introdurre margini di manovra ampi sul fronte delle entrate fiscali locali, a cui dovevano corrispondere però chiare responsabilità sul fronte della spesa. Ivi inclusa la possibilità del default. Ma così non è stato. La politica locale, e il malinteso concetto di uniformità nazionale e coesione territoriale, hanno impedito a questo tipo di impostazione di passare.

Altro che nuovo. Altro che #voltabuona. Oggi abbiamo (ancora) gli enti locali da un lato, che contano di poter presentare le spese a pie' di lista. E il governo dall'altro lato, che proclama sgravi fiscali mentre scarica l'onere di tagliare la spesa e aumentare le tasse sulla politica locale. È questa la trama della commedia di regioni e comuni che litigano col governo. Non è che la rappresentazione della politica che litiga con se stessa, e il risultato della sua incapacità di riformarsi e di riformare.