Tutto quello che sapete sul TTIP (o quasi) è falso
Istituzioni ed economia
Se c'è qualcosa che sta trainando l'Italia fuori dalla crisi, si dice spesso, quel qualcosa è l'export; che i nostri prodotti siano apprezzati in tutto il mondo, del resto, non è certo una novità. In realtà, negli ultimi anni la quota di beni e servizi italiani nel complesso del commercio mondiale continua a perdere terreno, sotto la pressione dei Paesi emergenti e dell'Asia. Ma c'è un mercato che, in controtendenza, sembra essere sempre più attratto dal Made in Italy: è quello statunitense, la cui domanda tiene letteralmente a galla moltissime aziende italiane. Basti pensare che l'aumento dello 0.23% registrato tra il 2010 e il 2014 corrisponde a oltre due miliardi di dollari annui per ogni decimale di punto guadagnato.
Non a caso, gli USA sono il primo partner commerciale dell'Italia dopo Germania e Francia, con una quota intorno al 7% del nostro export. Eppure, per esportare negli States, un'impresa italiana è costretta ad aumentare i prezzi di una percentuale oscillante tra il 10 e il 50% a seconda dei settori economici, a causa di dazi doganali e barriere non tariffarie (licenze, normative tecniche, standard produttivi e adempimenti burocratici di varia natura). Cosa succederebbe, se non esistessero queste barriere?
Proprio per ridurre i dazi e gli altri impedimenti allo scambio di beni e servizi, l'Unione Europea sta negoziando con gli Stati Uniti, da quasi due anni, un accordo commerciale di libero scambio, comunemente noto come TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), che andrebbe a creare il più grande spazio di libertà economica sul pianeta.
La portata potenziale dell'accordo, insomma, è enorme. Il tema, pertanto, meriterebbe altrettanta attenzione e serietà. Purtroppo, al contrario, il dibattito sul TTIP è stato sinora soprattutto ostaggio di un'opera di disinformazione e cherry picking da parte dei suoi detrattori, che si sono spesso limitati a spettacolarizzarne i contro senza entrare nel merito delle questioni, in una logica di "no a tutti i costi", peraltro basata soprattutto su paure immotivate, luoghi comuni e vere e proprie bufale. Una logica che, purtroppo, conosciamo sin troppo bene. Ma in cosa consistono, riassumendole, le principali critiche mosse al TTIP?
Come ho già cercato di approfondire in un paper pubblicato dall'Istituto Bruno Leoni e, in inglese, dall'European Policy Information Center, la prima critica - mossa anche dai principali quotidiani generalisti nostrani (qui e qui, ad esempio) - concerne la segretezza dei negoziati. Se è certamente vero che esiste un deficit democratico all'interno dell'Unione, tuttavia, è d'altronde innegabile che, nel caso specifico, la Commissione europea stia facendo grandi sforzi per colmarlo, come dimostrano i numerosi documenti, position paper, dati e rapporti che ha pubblicato (e di cui potete trovate i link all'interno del paper).
Si potrebbe fare di più? Certo. Ma bisognerebbe considerare il TTIP alla stregua di qualunque altro atto politico/normativo e comprendere che le contrattazioni esigono sempre un certo grado di riservatezza. Senza considerare che, in ogni caso, la definitiva approvazione dell'accordo è soggetta al voto finale del Parlamento europeo, rappresentativo dei cittadini dell'UE (e che, negli anni, ha già "bocciato" provvedimenti simili).
La seconda critica mossa al TTIP è che questo possa aprire alla privatizzazione dei servizi pubblici. Ipotesi perentoriamente esclusa, a scanso di equivoci, dal Commissario europeo per il commercio Cecilia Malmström, anche perché, a ben vedere, semplicemente riguarda un tema non attinente al TTIP. Conseguentemente, i Governi resteranno liberi di definire l'ambito della definizione di "servizio pubblico", di lasciarne la gestione in mano pubblica e anche di riportare nell'alveo della PA un servizio precedentemente privatizzato. Alcuni gruppi anti-TTIP hanno criticato questa ricostruzione, sottolineando che "il mandato negoziale non impone la privatizzazione dei servizi, ma non la esclude". Il che non è tanto diverso da criticare la legge elettorale per il fatto che non si occupa di rafforzare la lotta alla corruzione.
Il mito più diffuso sul TTIP, in ogni caso, è certamente quello secondo cui le multinazionali avranno diritto di costringere gli Stati a non approvare leggi a tutela dell'ambiente o dei lavoratori. Uno dei nodi cruciali (e sinora irrisolti) delle trattative è, in effetti, l'inserimento della cosiddetta "clausola ISDS", che si concretizza nella possibilità, per un investitore straniero, di aprire un procedimento di risoluzione delle controversie nei confronti di un governo, di fronte a una corte arbitrale, qualora ritenga che nuove leggi locali minaccino gli investimenti effettuati (e garantiti altrimenti dalla precedente regolamentazione) in maniera discriminatoria. D'altronde, l'utilizzo di tale strumento nei trattati sugli investimenti è una prassi consolidata, volta a garantire che i giudici siano effettivamente super partes e non finiscano per prendere decisioni "di pancia" a favore del proprio Stato di appartenenza.
Né, peraltro, l'ISDS preclude il diritto dei governi di adottare le leggi che ritengano opportune, imponendo loro solo eventuali ricompense monetarie, sempre e solo in caso di misure accertate come inique e irrispettose di punti dello stesso TTIP. E rendendo così evidenti i costi occulti dell'incertezza normativa e di politiche pubbliche discriminatorie o poco lungimiranti. Senza contare che, in ogni caso, l'ISDS si applicherebbe al solo capitolo sugli investimenti e solo a violazioni dello stesso TTIP, non pregiudicando, come affermato dalle direttive negoziali, il diritto dell'UE e degli Stati membri di «adottare e applicare le misure necessarie al perseguimento non discriminatorio di legittimi interessi di politica pubblica negli ambiti sociale, ambientale, di sicurezza nazionale, della stabilità del sistema finanziario, della salute pubblica e della sicurezza». Inoltre, da un punto di vista geopolitico, escludere l'ISDS dal TTIP renderebbe insostenibile il suo inserimento negli accordi commerciali con la Cina (ove, al contrario, è indispensabile a causa del rapporto osmotico tra Governo e tessuto industriale).
Altro timore (infondato) molto comune è quello secondo cui il TTIP diminuirà la sicurezza agroalimentare e ambientale europea: il principio di precauzione che regola la tutela agroalimentare e le misure sanitarie e fitosanitarie in Europa, tuttavia, non è posto in discussione (nemmeno, giova ricordarlo, per quanto concerne gli OGM, esclusi dall'ambito del trattato). L'armonizzazione degli standard, in questo senso, non implica una loro corsa al ribasso, ma solo un taglio netto di burocrazia, foriero - come anticipato - di grandi opportunità per le PMI italiane e probabilmente senza troppe conseguenze, invece, per le grandi corporation, le quali non hanno già oggi difficoltà ad aggirare dazi e barriere non tariffarie semplicemente delocalizzando la produzione.
In conclusione, non è detto che il TTIP sia la panacea di tutti i mali; anzi, certamente non lo è. Ma può essere uno strumento valido per favorire l'integrazione (non solo economica) fra i popoli sulle due sponde dell'Atlantico, per far tornare a crescere la nostra economia, per "puntare sul Made in Italy" e per alleggerire la burocrazia che attanaglia la nostra creatività imprenditoriale e la nostra libertà. Sui dettagli dell'accordo, poi, si può e si deve discutere, ma solo se si abbandonano i luoghi comuni e si ha quel minimo di buona volontà sufficiente a smentire la maggior parte dei pregiudizi che ne stanno accompagnando le trattative.
Anche perché, paradossalmente, l'aura di complottismo che aleggia intorno al TTIP è a ben vedere figlia di quella stessa libertà di scambio d'idee, beni e servizi che il trattato intende favorire, almeno nelle sue intenzioni.