Di Gregorio gargoyle

Il TTIP è ormai fallito, inutile girarci intorno. A decretare il suo tramonto è stata la paura delle principali leadership europee – pur consapevoli dei vantaggi reciproci per l’Europa e gli Stati Uniti – di contrastare la vulgata 'gentista' che dilaga ormai per il continente. Troppo elevato è il costo politico ed elettorale di difendere un trattato che avrebbe prodotto nei prossimi anni benessere e ricchezza (anzitutto per il Made in Italy, per il quale si sarebbero spalancate le porte del mercato americano così affamato di qualità italiana), ma che nel breve periodo aveva bisogno di essere spiegato e comunicato.

Lo scorso maggio bastò un finto scoop di Greenpeace per innescare una reazione scomposta dei principali leader europei, che iniziarono quasi a scusarsi di colpe che non avevano. “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”, scrisse Alessandro Manzoni, e nessun aforisma potrebbe essere più calzante.

Noi di Strade lo diciamo con chiarezza, forti di numeri e dati: chi rinuncia alla prospettiva di un'area di libero scambio con gli Stati Uniti danneggia l’economia italiana ed europea presente e futura, le chiude opportunità e spazi di mercato, contribuisce alla sua marginalizzazione.

Quello tra USA e UE non era un negoziato ad armi pari, dicono. Ed è vero, perché, guardando ai decenni che saranno, gli Stati Uniti hanno più “fronti economici” cui badare e quello con l’Europa non è necessariamente il più promettente. Il più grande, per ora, ma non quello con i maggiori margini di crescita. Il baricentro del pianeta non è più il Mediterraneo e nemmeno l’Atlantico, è il Pacifico. Mettendo la testa sotto la sabbia, lo struzzo Europa si autocondanna ad essere sempre più un continente periferico. E l’Italia rischia di essere periferia della periferia. Per questo, anche solo per questo, ringraziamo l’unica voce che ancora si leva a difesa del Trattato: il ministro dello Sviluppo Economico italiano Carlo Calenda.

Le sorti del TTIP sono legate ad un fenomeno culturale più grande e profondo, uno spettro che si aggira per l’Occidente: il sovranismo. Una strategia sempre più lucida e deliberata, che opera per smantellare le prospettive di un mondo aperto, pacifico e competitivo per ripristinare invece barriere, vincoli, limiti nazionali e ideologie anti-industriali.

È questo il vero “complotto”, per usare un termine a loro caro: l’iniziativa politica di chi - osservando l’impoverimento del ceto medio prodotto dalla grande crisi economica e finanziaria degli ultimi anni, la rapida obsolescenza professionale dell’economia della conoscenza e l’oggettiva complessità della società globale - ha pensato di trasformare un esercito di esclusi e di delusi in una massa di manovra elettorale, indicando loro nella “sovranità” la panacea dei mali e delle incognite della loro quotidianità. Dopo decenni trascorsi a contenere, frammentare e pluralizzare il "potere", per timore di un suo abuso e per proteggere le libertà individuali così tanto minacciate dalle ideologie anti-umaniste del Novecento, c'è chi in Occidente rivendica la necessità di un ritorno ad un potere forte e unitario, sovrano, discendente "dal popolo" (e da chi se no?)

“Noi vogliamo sovranità”, ha scritto due giorni fa Alessandro Di Battista: “Vogliamo mangiare ciò che produciamo e produrre quel che si mangia. Vogliamo sovranità alimentare. Non olio tunisino o arance marocchine. Vogliamo una nostra moneta stampata da una nostra banca. Perché la moneta è dei popoli, non delle banche private. Vogliamo sovranità monetaria. E vogliamo sovranità politica. Basta con l’intermediazione dei partiti”.

Protezionismo, nazionalismo monetario, antipolitica. Istanze che non avremmo esitato a definire pericolose per la nostra libertà e che ora, ammantate da un modernismo comunicativo e tecnologico, basate su alcuni bisogni “pacifici” come il mangiar sano e italiano, appaiono la risposta a un non meglio identificato "sistema" (le banche private, le multinazionali, i "poteri forti"). Benvenuti nel grande confronto tra sovranisti e internazionalisti, la sfida culturale e politica del nostro tempo. Una sfida durissima.