Fellini, Visconti e la bella confusione. Piccolo racconta un passato di appunti per il futuro
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Sui dietro-le-quinte mutualmente influenzatisi di 8½ e Il Gattopardo (libro e film) Netflix ci potrebbe fare una serie – Francesco Piccolo ci ha fatto un libro, La bella confusione (Einaudi), confusione nella quale l’autore si orienta eccellentemente seguendo la spola di Claudia Cardinale da un set all’altro e i ricordi di sé stesso ragazzino innamoratosi della lettura grazie a Il Gattopardo e ipnotizzato da 8½.
Il libro si può leggere seguendo il filo della rivalità fra due primedonne, Federico Fellini e Luchino Visconti, ma anche quello della tensione tra libertà di espressione artistica e ambiente politico-culturale oltremodo politicizzato e politicizzante.
La turbolenta ma determinante simbiosi mutualistica tra Burt Lancaster e Visconti, la placida imperturbabilità di Fellini al cospetto di una frotta di cavalli imbizzarriti perché Giulietta Masina è al suo fianco ed «è così che si sente Fellini quando c’è Giulietta», gli screzi e le pacificazioni fra Zeffirelli e Flaiano o fra Fellini e Pasolini o ancora Flaiano, il corsetto di Claudia Cardinale durante le lunghissime riprese al Palazzo Valguarnera-Gangi ecc.: è un’aneddotica che incanta e che rischiava di andare perduta o frammentata tra documenti ufficiali memorialistica e trasmissione orale.
Merita una citazione particolare la vicenda delle lettere minatorie indirizzate alla produzione de Il Gattopardo perché le riprese del film non venissero effettuate a Palma di Montechiaro; la cosa fece parecchio rumore, il sindaco di Palma fu perfino costretto a dimettersi. Anni dopo Pietro Notarianni, responsabile della produzione, confesserà che le lettere minatorie le aveva redatte e spedite… egli stesso: girare a Palma di Montechiaro avrebbe fatto lievitare il già spropositato budget del film e le minacce mafiose rappresentarono l’unico, disperato espediente per convincere un altrimenti irremovibile Visconti a cambiare idea sulla location. Quello dell’utilizzo strumentale della mafia – talvolta, come nella pur rocambolesca vicenda appena citata, perfino tramite lettere minatorie apocrife – è un tema che si ripresenta ciclicamente almeno dal primo Novecento: anche su questo versante tutto è cambiato perché nulla mutasse.
Quanto alla tensione tra libertà di espressione artistica e contesto politico-culturale, leggendo si può intuire anche quanto fosse mefitica l’aria che si respirava allora: il disimpegno bollato come militanza antiprogressista o diserzione, le stroncature interessate e su commissione, gli altissimi livelli di sofisticatezza critica raggiunti in dibattiti poggiati su pretesti di scarsissimo pregio (Il Gattopardo è un romanzo reazionario e passatista… no, contrordine!, Louis Aragon ha scritto che il pessimismo dell’autore è tutt’altro che inconciliabile con lo storicismo marxista, magari adesso Visconti corregge il tiro con una trasposizione più attenta alle vicende di contadini e mezzadri – e via delirando).
O un autore compiace l’aria che tira – e dunque mette in conto il rischio di peccare di pedagogismo politico e di mandare al diavolo la validità a-temporale e universale verso cui un’opera ben fatta dovrebbe tendere; o giace sotto la duplice spada di Damocle della politicizzazione abusiva dell'opera stessa e della bocciatura strumentale fondata su parametri occultamente o esplicitamente politico-ideologici.
Così era allora, prima che il mondo si liquefacesse, quando gli apparati erano ben strutturati – l’Ufficio cattolico, la commissione culturale del Pci e del Pcus, il giornale di partito ecc.; così è oggi con la democratizzazione della critica culturale e le star di Instagram o TikTok che approvano o bocciano ferocemente prodotti culturali in base al coefficiente di wokismo che vi individuano e agli eventuali passi falsi degli autori degli stessi (la criminalizzazione di J. K. Rowling e i tentativi di boicottaggio – vani ma allarmanti per la veemenza con cui sono stati portati avanti – di qualunque prodotto connesso all’universo harrypotteriano sono in tal senso paradigmatici).
Ma alla fine quel che dovrà restare resterà indipendentemente da quanto sia conforme ai dogmi ideologici o post-ideologici che vanno per la maggiore, si tratti dell’assai poco woke harem felliniano, dell’ultimo valzer a Donnafugata o del ballo del ceppo.