berlinguer1

Le domande semplici si rivelano spesso le più insidiose. Se si volesse identificare la soglia della conoscenza utile a superare un esame universitario, ne basterebbe solo una probabilmente. Ad esempio: “Chi era Berlinguer?”, o una analoga. In ambito politico, dalla stessa domanda si potrebbe desumere il grado di consapevolezza con cui un cittadino mette una croce sulla scheda elettorale.

Ebbene, questa semplice domanda, o una di questo tipo, rivolta a un giovane di venti anni o poco più apre spesso scenari confusi, spiazzanti, al limite del fantasioso. Molti giovani si interrogherebbero come don Abbondio a proposito di Carneade: “Berlinguer, chi era costui?”, magari in forma più colorita: “Chi cazzo era Berlinguer?”. Non parlo solo di giovani “ignoranti”. Su questa domanda può cadere e cade – lo dico per esperienza personale – anche lo studente universitario medio a un esame di Storia Contemporanea. Non c’è da rimanerne scandalizzati. Se è una prova di impreparazione per lui, è un segno dei tempi per tutti, anche per quelli che si rivolgono a lui e ai suoi pari tentando di persuaderli all’impegno politico o almeno al voto.

Se da una parte è aumentato il numero di persone politicamente poco attrezzate o poco inclini alla partecipazione diretta, dall’altra va rilevata, anche in rapporto a questo fenomeno la rigidità e l’inadeguatezza delle piattaforme politiche contemporanee. Nel mondo globalizzato e post ideologico, non c’è stato forse errore più grave da parte degli addetti ai lavori: non aver interpretato il cambiamento e, in particolare nel mondo progressista, essersi limitati alla demonizzazione degli avversari e alla fine perfino degli elettori, invece di compiere uno sforzo per delimitare i nuovi confini della propria identità e per escogitare nuovi linguaggi, che per essere davvero tali non devono solo risuonare nella bocca di chi parla, ma anche “parlare” alla testa di chi ascolta.

Nel frattempo, le generazioni di teenagers si sono date il cambio. Una volta molti ragazzini si infilavano delle belle t-shirt con il faccione di Che Guevara; altri invece portavano una polo Fred Perry, abbottonata fin su e infilata in jeans stretti, e giocavano a fare i fascistelli (senza sapere che Fred Perry fosse ebreo). Era forse un mondo più semplice, di certo già schematizzato. L’abbigliamento, le abitudini e i gesti rappresentavano un universo giovanile in cui la politica aveva il potere di occupare una parte dell’anima, di colorare il linguaggio e di riempire spazi fisici e tempo libero. Tutti fenomeni di appartenenza e di rappresentazione oggi notevolmente affievoliti.

Il declino delle forze politiche cosiddette tradizionali, orfane di uno schema dialettico e ideologico consolidato nel secolo scorso e incapaci di adattarsi alle nuove regole di ingaggio politico dei cittadini-elettori, è avvenuto contestualmente all’affermazione dei movimenti populisti e dell’antipolitica, che hanno utilizzato abili strategie di consenso, sfruttando o distorcendo a loro favore le caratteristiche delle piattaforme social; piattaforme – si badi – che non sono solo un modo per comunicare o per informarsi, ma per “essere nel mondo”, per conoscersi o per guadagnare da parte di alcuni miliardi di persone nell’era della disintermediazione universale. Tutto questo successo dell’antipolitica non è dovuto all’evoluzione dei modelli di comunicazione, alla tecnologia, ai social network, ma a un uso più coerente di questi strumenti e a una lettura più evoluta di quella materia prima della politica, come di ogni offerta, in qualunque mercato, che sono i sentimenti e i desideri della gente.

Gli ispiratori di queste tendenze hanno colto l’ora storica esatta per la demolizione dello schema destra-sinistra, accompagnata dalla narrazione “popolo contro élite”, dalla demonizzazione delle competenze e da una certa retorica complottista. Hanno così plasmato inedite identità politiche, solo apparentemente nuove, e intrise di elementi vecchi, tipici delle fasi di crisi transizione, come il nazionalismo, il sovranismo e la xenofobia, in aperto contrasto con i valori della società aperta, liberale e democratica, occidentale. E l’hanno fatto senza nessun vincolo di coerenza. Ricette che qualificheremmo di estrema destra e di estrema sinistra convivono felicemente nello stesso campo.

Nel nostro Paese, se questi fenomeni possono essere considerati il prodotto, piuttosto che la causa, della fluidità politica della nostra epoca, è indubbio che esiste oggi un vuoto enorme di offerta, più che di rappresentanza. Saltati completamente gli equilibri della Prima e della Seconda Repubblica, le forze politiche di centrodestra e centrosinistra faticano a comporre piattaforme programmatiche, contenuti e strategie credibili ed efficaci per opporsi all’ondata antipolitica. E la gente va a votare comunque, facendosi rappresentare dagli “altri”.

Le famiglie politiche tradizionali hanno perso appeal sull’elettorato, soprattutto sui più giovani. Termini come "socialista", "popolare" o "liberale" non solo non generano attrattiva, ma non hanno più la capacità di delineare chiaramente un insieme di idee e valori. Nella migliore delle ipotesi, sono concetti percepiti come reperti archeologici, e spesso sconosciuti tra i millenials. Se si parla a un giovane di Berlinguer, Moro, Pertini, Almirante o Craxi, non è molto diverso che se gli si parlasse di De Pretis o Minghetti, di Giolitti o di Facta. Che Guevara è un’immagine pop. La Thatcher e Reagan roba da nerd e fanatici. Non sono riferimenti politici, non sono frontiere ideali.

Tutto è cambiato, elettori compresi. Le forze sovraniste hanno cominciato e continuano a vincere elezioni, da una parte all’altra dell’Atlantico. E mentre ciò accade, nel mondo progressista lo sterile dibattito tra neokeynesiani e neoliberisti risulta stucchevole e autoreferenziale, una mera speculazione intellettuale. Il punto non è scegliere un approccio paradigmatico, ma contribuire alla definizione di modelli realmente innovativi, di operare un avanzamento rispetto alle teorie e di costruire un movimento politico per la società aperta, nella migliore accezione possibile, ma anche nelle effettive condizioni possibili.

L’approccio nostalgico di tutti quelli che vogliono tornare a qualcosa o a qualcuno – a Einaudi o a Bad Godesberg, a Marx o a Milton Friedman, a Berlinguer o allo spirito del 1994 – è un approccio politicamente sterile e “incapacitante”. Per banale che sia dirlo, la ragione del successo del fronte populista è quello di avere risposto in modo barbarico, ma efficiente, a questo svuotamento delle ideologie tradizionali, trasformando lo sbandamento dell’opinione pubblica in uno straordinario esperimento di ingegneria sociale e riconducendo il gioco della politica a pura espressione di sentimenti elementari: la paura, l’odio, il disprezzo, l’invidia…Trump, Bolsonaro, Duterte, Salvini hanno “spoliticizzato” la democrazia. Le forze politiche mainstream non possono spoliticizzarsi, ma non possono neppure pensare di resistere accampati nelle trincee del vecchio secolo, fosse pure quella dell’Italia berlusconiana o antiberlusconiana. Dalla discesa in campo di Berlusconi a oggi è passato più tempo che dalla fine del governo Badoglio alle proteste studentesche del ’68.

Le categorie della politica novecentesca, come destra, sinistra, classe operaia, "padroni", perfino stato-nazione, appartengono a una società e a un sistema socioeconomico che di fatto non esistono più e sono ridotti a meri feticci ideologici e polemici. L’esigenza di aggiornare il lessico e la logica della politica contemporanea, dunque, non risponde solo a un'esigenza di comunicazione, ma di verità.

L’ideologia della chiusura c’è già, con basi e organizzazioni solide. Se si vuole organizzare il fronte del progresso, la sintesi dei valori della democrazia, della libertà, dell’uguaglianza e dell’aperura non si può scimmiottare il nemico – i cui mezzi prefigurano i fini – ma non ci si può neppure votare fiduciosi all’esempio dei lari e dei penati della buona politica. Per parafrasare Machiavelli, non si possono battere Salvini e di Maio, biascicando i paternostri degasperiani, berlingueriani o berlusconiani…

@antonio_santoro