Finte tutele e veri paradossi: le Denominazioni Agroalimentari Tradizionali
Strade del Cibo
La recente querelle che ha visto contrapposte le regioni Veneto e Friuli Venezia Giulia circa la paternità del tiramisù è sintomatica della corsa all’esaltazione del “nulla di nuovo” attorno al quale gravita il mondo delle tipicità agroalimentari nazionali.
Recentemente ho avuto la possibilità di svolgere uno studio sul rischio di estinzione dei prodotti agroalimentari tradizionali (PAT) della mia regione, le Marche, che come tutte le regioni italiane annovera, in un’apposita lista aggiornata annualmente, una serie di quei prodotti “orfani di marchio” istituiti dal D. Lgs. n. 173 del 30 aprile 1998. Una legge di stampo protezionistico che trovò fin dall’inizio - guarda caso - l’ostilità dell’Unione Europea la quale, tuttora, non finanzia iniziative di studio e valorizzazione di questa categoria agroalimentare, motivo per cui diverse regioni hanno ormai fortemente ridotto l’attenzione sull’argomento.
L’istituzione di una categoria nella quale iscrivere i prodotti tipici “fuori marchio” aveva il senso di tutelare delle identità comunque presenti nei vari contesti regionali e territoriali, prendendole a pretesto per agganciarvi, in prospettiva, l’attuazione di un programma integrato di valorizzazione del variegato patrimonio culturale, artigianale e turistico insistente nei territori di assegnazione dei vari prodotti.
Tuttavia, esaminando la natura dei prodotti in questione ci si accorge che essi includono sì delle vere e proprie eccellenze - sia sul piano genetico-biologico che ambientale - ma anche delle mere banalità (una per tutte: la generica “salsiccia”) comuni praticamente a tutto il territorio nazionale. L’impressione che se ne ricava è quella di un’operazione malamente riuscita e che necessiterebbe di una riforma per poter funzionare così come auspicato dagli ideatori della legge del 1998.
Nel caso del tiramisù, la polemica sollevata dal governatore Zaia sa più di ripicca (per non averci pensato prima) che non di offesa per l’usurpazione di un diritto. Infatti, per quanto riguarda la categoria dei PAT - che non attribuisce marchi di qualità o di tutela - nessuno vieta al Veneto d’iscrivere lo stesso prodotto con lo stesso nome generico nella prossima revisione della propria lista dei prodotti agroalimentari tradizionali. Se così non fosse, infatti, andrebbero riviste - e sono a decine - le denominazioni di tutti quei prodotti che sono presenti con lo stesso identico nome nelle liste di più regioni.
E qui veniamo ad un punto sostanziale: che senso ha inserire un prodotto generico (indicato con un altrettanto generico nome, peraltro identico in tutto il resto d’Italia) nella lista dei prodotti tradizionali di una specifica regione? Detto in altre parole: non ha forse più senso eliminare dalle liste dei PAT regionali tutti quei prodotti che, pur legati ad una tradizione gastronomica regionale almeno venticinquennale, non presentano alcuna sostanziale differenza con gli “omonimi” di altre regioni? Di sicuro, ridurre il numero dei prodotti tradizionali - anziché aumentarlo esponenzialmente, come continuano a fare alcune regioni - avrebbe il merito di mettere in evidenza le vere eccellenze territoriali, che in definitiva sono anche le uniche ad avere delle reali chances di poter essere "elevate a marchio".
Ma non basta: lo studio che ho svolto sui PAT marchigiani (e questo vale anche per i PAT delle altre regioni) mostra chiaramente che i prodotti di eccellenza, per poter sopravvivere, hanno bisogno di godere di una reale affermazione commerciale. Piaccia o no, purtroppo non basta la parola magica “tipico” a garantirne l’esistenza. Diversamente, si tratta solo di “fantasmi” - spesso prodotti per il mercato locale da una singola azienda oppure, peggio ancora, preparati una volta all’anno in occasione della classica sagra paesana - inevitabilmente candidati a svanire definitivamente nel corso del tempo.