acqua rubinetto

Stando ai numeri, l’acqua che esce dai rubinetti è sicura per la salute, ma la percezione dei cittadini è che sia pericolosa. Quando fatti e comunicazione divergono i risultati sono sempre nefasti.

I numeri sono micidiali, si sa. Il loro uso può, in certi casi, portare a conclusioni diametralmente opposte, a seconda delle intenzioni di chi li condivida. Questo perché, presi di per sé, i numeri nulla dicono di utile.

Dire 3, 12, 632 ha infatti poco senso se non si specifica in primis l’unità di misura. E anche in tal caso, dire 632 grammi o 632 tonnellate è tanto o è poco? Se i 632 sono grammi, ma sono della tossina della Rana d’oro, nota agli zoologi come Phyllobates terribilis, ce n’è abbastanza per ammazzare alcune migliaia di persone. Se sono invece le tonnellate di una nave da trasporto si può parlare di natante di piccole dimensioni per il segmento commerciale in cui opera. Praticamente un nano. Ecco perché è scorretto citare numeri a casaccio, bensì vanno sempre indicati unità di misura, contesto di riferimento e, se del caso, eventuali risvolti tossicologici, quando si parli di salute e ambiente.

Un approccio complesso, quello di cui sopra, che implica ragionamenti pluridimensionali e multidisciplinari, mentre la mente umana richiede e predilige risposte semplici e immediate. Ecco perché spaventare la popolazione con qualche numero strillato è lavoro facile, mentre diviene opera ciclopica trasferire i motivi per i quali di preoccupazione non ve ne debba invece essere alcuna. Ciò accade per esempio sul tema “pesticidi nelle acque”, siano queste di falda o superficiali, ovvero fiumi, laghi o canali. Per ora ci si limiterà a trattare delle prime.

Periodicamente vengono pubblicati dei rapporti targati Ispra, acronimo di Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, in cui vengono riassunti i risultati di migliaia di determinazioni analitiche relative alle acque italiane. Un lavoro capillare, complesso e costoso, la cui utilità è innegabile. Anzi, sarebbe bene che tali monitoraggi divenissero ancor più capillari e numerosi, perché la definizione degli scenari reali è il primo passo per comprendere se vi siano problemi e quindi adottare le più idonee strategie di mitigazione, se necessarie.

Fatta salva questa doverosa premessa, la domanda che segue è: ma davvero i numeri contenuti in quei rapporti giustificano l’allarmismo che circola su giornali, web e televisione? La risposta è no: non lo giustificano.

Innanzitutto è bene far comprendere che quando si leggono titoli tipo “trovati 160 pesticidi nelle acque” non vuol dire che escono tutti insieme dal rubinetto di qualsivoglia famiglia. Come pure non significa che quelli reperiti puntualmente vi si trovino per dodici mesi l’anno. In altre parole, senza una corretta interpretazione del concetto di esposizione, ovvero livelli e durata, nulla si può dire né di allarmante né di rassicurante. Men che meno se non si scende nei dettagli di tipo tossicologico, perché ogni molecola è diversa dalle altre e ognuna ha un suo specifico profilo.

E già qui, come si suol dire, “casca l’asino”, perché gli attuali limiti di legge per le acque di falda sono tutti uguali: 0,1 microgrammi per litro (milionesimi di grammo). Ciò perché tale limite è di tipo normativo e non deriva da alcuna considerazione di tipo tossicologico. È stato cioè un modo semplice e veloce per fissare un livello che non si dovrebbe mai superare. Il perché però non se l’è chiesto nessuno, a quanto pare.

Un po’ come se un ministro dei Trasporti molto apprensivo decidesse di stroncare gli incidenti su strada abbassando i limiti di velocità dai chilometri l’ora ai metri l’ora. Di certo andando a 130 metri l’ora in autostrada non si ammazzerebbe più nessuno, ma ci vorrebbe circa un mese solo per andare da Bologna a Firenze. Un pedone a spasso viaggia infatti a 30 volte il suddetto limite. A nessuno verrebbe però in mente di bollare il pedone come pirata della strada. Gli italiani, al contrario, probabilmente scuoierebbero quel ministro, per poi rotolarlo nel sale: la sua decisione altro non avrebbe fatto se non portare il Paese alla completa paralisi.

Quando però si parla di molecole il discorso si complica, perché la popolazione non è in grado di applicare allo specifico ragionamento quel banale buon senso derivato dall’esperienza di tutti i giorni, come nell’esempio dei limiti di velocità.

Leggendo i dati dei report Ispra, per esempio, si resta impressionati dalle percentuali di reperimento delle molecole. Ce ne sono un po’ dappertutto, in effetti, quindi la paura cresce. Ma dire “un po’” non significa nulla, dato che leggendo le tabelle di quei report appare chiaro che i ritrovamenti sono per circa il 95% nell’ordine dei microgrammi o delle frazioni di microgrammo. Solo in alcuni punti isolati si misurano valori più alti. Secondo il fatidico limite attuale molti di quei campioni sarebbero però “fuorilegge”, e da qui si generano articoli e servizi televisivi che olezzano di Armageddon.

Peccato che, esattamente come marciare a un chilometro l’ora infrangerebbe i “fanta-limiti” di velocità di circa otto volte senza tuttavia rappresentare pericolo alcuno, anche il reperimento di molecole al di sopra del limite nelle acque può risultare insignificante in termini di rischi per la salute. Non a caso in altri Paesi si adottano criteri di tipo tossicologico per fissare specifici limiti, molecola per molecola. Un lavoro certamente lungo, ma tutto sommato semplice.

Ad esempio in Australia vi sono linee guida per le acque grazie alle quali ogni molecola trova il proprio limite in funzione del suo specifico Adi, o Admissible daily intake. La dose ammissibile giornaliera per l’uomo. Cioè assumibile per tutta la vita senza rischi per la salute. Ogni Adi è specifico per molecola, dato che deriva da un parametro misurato in laboratorio su cavie, il No Effect Level, ovvero la dose che somministrata per lunghi periodi nulla ha fatto alle povere bestiole. Per ricavare l’Adi, tale valore viene diviso per cento. L’Adi è cioè un centesimo di una dose già di per sé risultata innocua in laboratorio.

Agli australiani però non basta. Nelle acque hanno stabilito che non vi debba essere più del dieci per cento di tale valore, come si evince dalla formula sotto riportata.

Formula Sandroni

Operando in tal senso si scopre che i limiti ammissibili nelle acque italiane salirebbero di decine, centinaia o migliaia di volte. Basti pensare che per i due grandi accusati dei tempi moderni, glifosate e terbutilazina, erbicidi, si potrebbero fissare limiti rispettivamente di 900 e di 9 microgrammi per litro, ovvero 9.000 e 90 volte quello che in Italia fa urlare al disastro ambientale e sanitario. Guardando ai dati dell’Ispra, si evince infatti come gli Italiani siano esposti a livelli inferiori di decine o centinaia di migliaia di volte rispetto ai limiti australiani. Un grado di sicurezza stratosferico.

Per un altro agrofarmaco, il cadusafos, insetticida organofosforato, si troverebbe invece un limite massimo ammissibile pari a un terzo di quello italiano. In altre parole, fissare limiti senza fare i conti con la tossicologia penalizza inutilmente le molecole migliori e premia quelle peggiori.

Un non-senso che andrebbe presto sanato, se non fosse che nessun normatore avrà mai il coraggio di dire alla popolazione “scusate, ma abbiamo usato per decenni limiti privi di senso…”. Oltre alla pessima figura vi è infatti da pensare che nessuno crederebbe loro, sollevando sospetti di connivenze con le odiate multinazionali che vanificherebbero il tentativo dei normatori stessi di generare un quadro di riferimento finalmente basato su evidenze scientifiche, anziché su malumori gastro-intestinali.

Perché a far venire i mal di pancia agli italiani, v’è da concludere, non sono i “pesticidi”, bensì il business dell’allarmismo che aleggia su di essi.