Glifosate: velenoso, tossico, cancerogeno, anzi no
Strade del Cibo
Quando la caccia alle streghe appicca incendi sotto le pire sbagliate, il fumo si vede anche da molto lontano. È quel che è successo con glifosate, l’erbicida più venduto al mondo lanciato una quarantina di anni fa da Monsanto e oggi al centro di attacchi mediatici che sconfinano sovente nello sguaiato.
Efficace e poco costoso, glifosate ha infatti reso più facili ed economiche molte pratiche agronomiche, come pure sembra difficile sostituirlo nella pulizia dalle erbacce di strade e ferrovie. Ciò lo ha eletto a pesticida numero uno al mondo, conferendogli al contempo lo status di totem da abbattere agli occhi del fronte ecologista. A gettare benzina sul fuoco ci ha poi pensato lo Iarc, acronimo di agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, costola dell’organizzazione mondiale della sanità. In base ad alcuni studi lo Iarc lo avrebbe infatti catalogato il glifosate come “probabile cancerogeno” scatenando ondate di entusiasmo crocifissorio fra gli ecologisti e di sdegno tecnico fra gli agronomi.
Allo Iarc ha risposto quindi l’Efsa, l’agenzia europea per la sicurezza alimentare, e il Bundesinstitut für Risikobewertung, ovvero l'istituto federale tedesco per la valutazione dei rischi. Entrambi hanno giudicato glifosate non cancerogeno, cosa che di fatto ha aperto le porte alla sua conferma autorizzativa in Europa. L’opinione pubblica, così strattonata da ogni parte, resta quindi confusa e in balia di ogni arruffapopolo che sui social non perde occasione per bollare il glifosate come “il pesticida più cancerogeno del mondo”, salvo beccarsi dell’incompetente da chi abbia solo una minima infarinatura di tossicologia, agronomia e tossicologia umana.
La verità, come spesso accade, non sta però nel mezzo, anzi. Basta infatti sapere come lavorano Iarc ed Efsa per comprendere che glifosate non rappresenta rischi concreti per la salute delle persone, per il semplice motivo che nell’ambiente e nei cibi presenta concentrazioni dalle migliaia ai milioni di volte inferiori a quelle che potrebbero destare preoccupazione, cioè quelle prese invece in considerazione proprio dallo Iarc. Del resto, anche il fumo passivo è cancerogeno, pensandoci bene, ma se ci viene accesa una sigaretta a 50 metri e un filo di fumo ci infastidisce per qualche secondo non sarà certo per quello che ci ammaleremo di cancro.
Ecco, la proporzione fra le concentrazioni rivelatesi pericolose in laboratorio e il rischio reale di cancro è più o meno quello del filo di fumo su una spiaggia semideserta. Solo a dosi da cavallo glifosate ha infatti manifestato effetti negativi dal punto di vista oncologico. E giova ricordare in tal senso che è pur sempre la dose che fa il veleno. Non si va in coma etilico per un sorso di birra da quattro gradi e mezzo, ma si può morire se ci si scola d’un fiato un’intera bottiglia di wodka. Per giunta, checché se ne dica, questo erbicida non è affatto il “veleno” che viene grottescamente descritto, dal momento che presenta una tossicità acuta inferiore alla maggior parte delle sostanze alimentari che abitualmente poniamo nei nostri piatti e nei nostri bicchieri. Non a caso, negli Stati Uniti, ove si adottano criteri tossicologici per la fissazione dei limiti nelle acque, la concentrazione considerata sicura per glifosate è settemila volte più alta che in Europa, in cui i limiti sono stati fissati arbitrariamente uguali per tutte le sostanze attive, dalla più tossica alla meno tossica.
Eppure, parrebbe che questa molecola sia pericolosissima, per lo meno leggendo i diversi studi che ne comproverebbero oggi la cancerogenicità sui ratti e domani la genotossicità sui girini di rana. E i cittadini tendono a credere di più a ciò che li spaventa che a ciò che li rassicura. Basti quindi una considerazione perfin banale: se glifosate è così pericoloso, perché in nessuna prova di laboratorio è mai stato testato alle concentrazioni che realmente si trovano nell’ambiente? Semplice: perché a quelle concentrazioni non si ottengono i risultati eclatanti che si possono invece ottenere a dosi migliaia di volte superiori. Cioè quelle che permettono poi di vedere la propria pubblicazione rilanciata dalle associazioni ambientaliste e, di conseguenza, anche da alcune testate generaliste, specialmente da quelle in cerca di facili sensazionalismi con cui agitare le acque.
Prima quindi di tuonare contro glifosate perché cancerogeno, meditate sul seguente esempio: lo Iarc considera probabile cancerogena anche la carne rossa e i salumi ancora di più, essendo stati inseriti al pari dell’alcol in un raggruppamento di cancerogeni ancor più temibili del noto erbicida, fatto che ha scatenato gli insulti dei molti cultori della ciccia e del buon vino, per i quali lo Iarc pare sia un oracolo se parla di glifosate, salvo divenire un’accozzaglia d’incompetenti un filo paranoici quando parla di cose buone da mangiare e da bere. Quindi, alla prossima volta che gusterete un tagliere misto di salumi, oppure una bistecca, magari accompagnando il tutto con un buon bicchiere di vino rosso, meditate sul fatto che state introducendo nel vostro corpo centinaia di grammi di sostanze considerate dallo Iarc molto più pericolose di glifosate, molecola che se va bene la si può ritrovare a milionesimi di grammo.
E pare decisamente molto sciocco preoccuparsi di una piuma che cade sul nostro piede sinistro, mentre sul destro ci stiamo facendo cadere volontariamente un incudine da venti chili. Se quindi il buon senso ci fa comprendere come una bistecca sia tutto tranne che un pericoloso incudine, figuriamoci quanto pericolosa potrà mai essere quella metaforica “piuma”. Per giunta, una piuma senza la quale molti di quei salumi, bistecche e vini si farebbe pure una gran fatica a produrli, con buona pace di chi non si arrende dinnanzi alle evidenze.