Provincialismo controllato e garantito. Il caso della focaccia di Recco
Strade del Cibo
La denominazione d’origine, quello strano concetto che lega arbitrariamente la qualità di un prodotto alla sua origine geografica, nasce in Francia alcuni secoli fa. Non era una certificazione pubblica all’epoca, ma una garanzia che i commercianti girondini di vino fornivano ai loro clienti riguardo all’effettività dell’origine del prodotto che vendevano. Fu all’epoca di Napoleone III, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi che dalla semplice garanzia si passò a un sistema di certificazione più complesso, con la suddivisione in cru.
Da allora, è tutto un fiorire di denominazioni d’origine. In Francia, ma soprattutto in Italia, che questo sistema ha esasperato fino alle estreme - e a volte comiche, come vedremo - conseguenze. Ma se all’inizio la denominazione d’origine garantiva il consumatore, il cliente finale, oggi più che altro serve a difendere il produttore dalla concorrenza di altri produttori, magari più bravi. Un po’ come gli ordini professionali, insomma, le varie Doc, Docg, Dop e Igp servono a contingentare la produzione di un determinato prodotto, delimitandone l’origine a una determinata area geografica, per assicurare a chi lo produce un prezzo maggiore. Recinti corporativi - un po’ come gli ordini professionali - che servono a difendere chi sta dentro dalla concorrenza di chi sta fuori, fornendo con la certificazione pubblica il vantaggio competitivo di non essere costretti a fare qualità reale, per stare sul mercato.
Per questo ogni volta che a una determinata zona viene assegnata una denominazione d’origine, che si tratti di vini o di formaggi, è sempre una festa. Orgoglio di paese, nella terra dei mille campanili, con gli assessori che si fanno immortalare in fantastici set fotografici col calice in mano o la forma di cacio sotto il braccio, quotidiani locali a celebrare l’evento, nuove sagre estive da inaugurare, e poi consorzi, nuovi impianti, disciplinari che assicurano il rilancio di una intera filiera produttiva, ma non oltre il confine del comune, che i vicini si rodano, o si facciano la Dop pure loro. C’è da stupirsi se l’Italia è appunto il paese che vanta il maggior numero di denominazioni d’origine, simbolo tanto della varietà del suo patrimonio agroalimentare, quanto della vastità del suo provincialismo d’accatto?
I giornali oggi raccontano che a Recco, patria di una celebre focaccia al formaggio, l’ottenimento dell’Igp è stato accolto appunto con una grande festa, con le autorità in parata: guai a chi osa spacciare per focaccia di Recco una vile imitazione fatta fuori dal territorio dei quattro comuni liguri interessati: Recco, Avegno, Camogli e Sori. Non vorremo mica confonderla con la focaccia di Voltri o con quella genovese? E non importa se gli ingredienti e le modalità di produzione sono quelle stabilite dal disciplinare. Se non viene da Recco, se non è fatta a Recco non è di Recco, e più non dimandare.
E così siamo di nuovo a una esposizione universale, non quella napoleonica della Tour Eiffel ma quella milanese dell’Albero della Vita. A Rho i fornai di Recco si mettono a preparare la focaccia, arrivano i Nas e fanno chiudere tutto con l’accusa di frode alimentare, a norma di disciplinare. Un capolavoro: una legislazione corporativa e protezionistica che si rivolge contro - era ora! - gli stessi produttori che avrebbe dovuto proteggere da chissacché. Ora, se volete assaggiare una focaccia di Recco, prendete il treno e la macchina e andate a Recco. E poi raccontateci se ne valeva davvero la pena.