stradedelcibo quadratoQuello che segue è il testo del mio intervento all'annuale conferenza dell'Istituto Acton, sul tema "In dialogo con Laudato si': i mercati liberi possono aiutarci a curare la nostra casa comune?"

 

L’umanità ha sempre avuto un rapporto problematico con le risorse della Terra. L’idea che queste non fossero sufficienti a nutrire noi, e soprattutto i nostri discendenti, non è certo figlia della crescita degli ultimi decenni. Questo è quello che scriveva l’apologeta cristiano Tertulliano, nel suo trattato De Anima, nel 211 d.C.

Siamo di peso al mondo, a stento ci bastano le risorse, e maggiori sono i bisogni, più alti sono i nostri lamenti, poiché la natura già non è in grado di sostenerci. In effetti le pestilenze, le carestie, le guerre e la rovina delle civiltà sono un giusto rimedio, uno sfoltimento del genere umano arrogante

Onerosi sumus mundo, vix nobis elementa sufficiunt, et necessitates artiores, et querellae apud omnes, dum iam nos natura non sustinet. Revera lues et fames et bella et voragines civitatum pro remedio deputanda, tamquam tonsura insolescentis generis humani.

Norman Borlaug

All’epoca di Tertulliano, la Terra ospitava poco più di 200 milioni di abitanti, secondo le stime attuali, e sicuramente Tertulliano poteva entrare in contatto con una minima parte di essi. Oggi siamo più di 7 miliardi: la profezia di Tertulliano non si è avverata, grazie al cielo.

Dell’epoca di Tertulliano non conosciamo solo, approssimativamente, il numero di abitanti della terra. Gli scrittori dell’antica Roma, anche i più importanti, hanno parlato spesso di agricoltura, quindi sappiamo anche quanto grano produceva un ettaro di terra coltivabile: dieci quintali, una tonnellata. Dall’antica Roma ad oggi è passato moltissimo tempo, eppure per vedere la produzione unitaria di grano per ettaro discostarsi da quella cifra - una tonnellata - dobbiamo arrivare a poco tempo fa. Molto poco tempo fa, in confronto ai quasi 2000 anni che sono passati da allora. Guardate questo grafico:

fig.1

Fig. 1: Resa delle coltivazioni a frumento in USA e in Italia. Fonte ISTAT e USDA

Come potete vedere, appena negli anni ’40 del '900, in Italia e negli USA, due paesi sviluppati, la produzione di grano si aggirava ancora attorno ai dieci quintali per ettaro, la stessa tonnellata dei tempi di Tertulliano. Oggi la media produttiva, in Italia, sfiora le quattro tonnellate per ettaro. Un po’ meno negli Stati Uniti. Guardate invece il mais:

fig.2

Fig. 2: Resa delle coltivazioni a mais in USA e in Italia. Fonte ISTAT e USDA

Il balzo produttivo è impressionante: anche qui si parte, negli anni ’40, da produzioni che variano da un minimo di 10 a un massimo di 20 quintali per ettaro in Italia - mentre va un po’ meglio negli USA. Poi cominciano a salire, inesorabilmente, fino a superare le dieci tonnellate per ettaro - cento quintali, fino a dieci volte tanto le produzioni di appena 6 decenni fa. In un tempo inferiore alla vita media di una persona, nulla rispetto ai due millenni che ci separano dalle profezie “decresciste” di Tertulliano, la capacità produttiva di un ettaro di terra coltivabile ha raggiunto dei livelli che, comprensibilmente, era molto difficile immaginare prima.

Sappiamo bene quel che è successo negli ultimi 60 anni. C’è stata quella che abbiamo chiamato “Rivoluzione Verde” - Green Revolution. La Rivoluzione Verde non si riduce a una sola innovazione tecnologica, è stata piuttosto una rivoluzione che ha interessato tutti i fattori di produttività. Vediamo i più eclatanti.

- La meccanizzazione delle lavorazioni agricole, con il passaggio dalla trazione animale a quella a motore: una cosa che ha cambiato radicalmente il rapporto tra il lavoro e il tempo - oggi anche aziende di ridotte dimensioni dispongono di trattori e attrezzature che permettono di arare molti ettari al giorno - e la stessa capacità produttiva dei terreni, che possono essere dissodati più in profondità.

- L’uso dei fertilizzanti chimici al posto o in comunione con quelli di origine animale, che ha accresciuto in maniera esponenziale la produttività dei terreni.

- L’introduzione degli agrofarmaci per la difesa dei raccolti, che hanno smesso di essere messi a repentaglio da parassiti, insetti, malattie, erbe infestanti. Oltre ad aumentare la produttività, l’uso degli agrofarmaci ha ridotto drasticamente il rischio di impresa. L’eventualità di perdere completamente un raccolto è oggi molto rara, mentre fino a non molto tempo fa era molto frequente.

- L’uso dell’acqua per l’irrigazione, che ha letteralmente mutato il normale ciclo delle stagioni, che si allungano o si accorciano - limitatamente ai campi coltivati, è chiaro - secondo le necessità irrigue della coltura sul campo.

- Il miglioramento genetico delle varietà: in una dimensione microscopica, al livello del DNA delle piante, sono successe cose incredibili nell’ultimo secolo. Attraverso gli incroci, il breeding - pensate cosa ha significato l’introduzione degli ibridi, è stato possibile creare varietà con le caratteristiche desiderate. Un processo che oggi continua con la transgenesi.

È esemplare l’esperienza di Norman Borlaug, che della Rivoluzione Verde è diventato il simbolo - anche se, va detto, la Rivoluzione Verde ha tantissimi padri. Biologo, genetista agrario, ha lavorato negli Stati Uniti, in Maessico, in India, e si dice che proprio in India, negli anni ’70, dopo il suo passaggio non ci fossero abbastanza sacchi per insaccare il grano, né treni per trasportarlo. È una esagerazione, probabilmente, ma rende la misura di come questi cambiamenti siano stati percepiti, anche dalle popolazioni rurali, negli anni in cui hanno avuto luogo: il termine Rivoluzione Verde, Green Revolution, non è un termine esagerato o fuori luogo.

Torniamo un momento al povero Tertulliano, che nel 211 non aveva gli strumenti per vedere un futuro tanto lontano. Se ci pensiamo bene, la sua “profezia” catastrofica si basa su un presupposto corretto, tanto corretto da non essere mai stato messo in discussione per quasi 18 secoli: il rapporto immutabile tra produzione di cibo e terra impiegata per produrlo. All’epoca, e per molti anni ancora, dare da mangiare a più persone significava dover trovare nuova terra da coltivare e seminare. Era un’equazione esatta, alla quale non si poteva sfuggire, e per molto tempo è stato esattamente così. Guardate questo grafico, che riguarda la produzione di mais negli Stati Uniti negli ultimi 150 anni.

fig.3

Fig. 3: rapporto tra produzione di mais e terra coltivata in USA. Fonte: US Census Bureau

Quello che è successo dagli anni ’40 in poi lo abbiamo già visto: concentriamoci un momento su quello che è successo prima, sulla prima metà del grafico. E’ evidente come la produzione e la terra utilizzata fossero strettamente correlate: l’aumento della produzione non poteva che essere conseguenza diretta della coltivazione di maggiori superfici di terreno. Fatto 1 il valore di entrambi - terra e produzione - nel 1866, il primo anno registrato, le due linee hanno percorso un tracciato identico (se escludiamo gli alti e bassi stagionali) fino alla seconda guerra mondiale, dopo la quale tutto è cambiato. E quanto sia cambiato lo vediamo qui.

fig.4

Fig. 4: Terra coltivabile per unità di prodotto. Fonte: FAO

Qui abbiamo la terra coltivabile necessaria per unità di prodotto: rispetto al 1960, oggi usiamo il 68% di terra in meno per produrre la stessa quantità di cibo. Chi ha un minimo di dimestichezza con l’agricoltura percepisce immediatamente quanto questo balzo sia impressionante. E’ un grafico che dobbiamo tenere a mente, perché ha molto a che fare con il concetto di “sostenibilità” ambientale delle produzioni agricole: spesso non lo si tiene nella dovuta considerazione, ma la maggiore produttività per ettaro è un fondamentale parametro per misurare la sostenibilità dell’agricoltura, una cosa che dovrebbe farci guardare all’intensificazione agricola - produrre di più usando meno terra - con occhi assai meno critici.

Il grafico naturalmente non ci racconta la quantità di terra utilizzata per produrre tutto il cibo di cui abbiamo bisogno: questa, infatti, non è diminuita in valori assoluti. La ragione è evidente: ci sono più bocche da sfamare - da 200 milioni a 7 miliardi - rispetto ai tempi di Tertulliano, ma anche rispetto all’epoca, più recente, di cui ci siamo occupati finora: nel 1950 il pianeta Terra ospitava circa 2,5 miliardi di persone e di queste, secondo i dati della FAO, circa un miliardo erano malnutrite, ovvero soffrivano la fame. Oggi siamo circa 7 miliardi, come dicevamo, ma ad essere colpiti da malnutrizione sono circa 800 milioni di individui. Se pure possiamo osservare che il numero degli affamati non è calato significativamente, oggi possiamo dire che la Terra è in grado di dare da mangiare a circa 5,5 miliardi di persone in più rispetto a 60 anni fa.

Tertulliano quindi si sbagliava. L’orizzonte che era in grado di osservare gli concede molte attenuanti, certo, ma senz’altro possiamo dire che il pianeta non è sopravvissuto grazie alle pestilenze e alle carestie che lui profetizzava nel De Anima, quelle che avrebbero ridotto la quantità di bocche da sfamare e riportato il sistema in equilibrio, oltre a punire l’umanità per la sua arroganza. La Terra è sopravvissuta grazie alla capacità di conoscenza, alla volontà, alla libertà e alla responsabilità dei suoi abitanti. Se non l’avete riconosciuto, questo è un riferimento a un passaggio dell’Enciclica Laudato si’, della quale oggi stiamo parlando:

Non si può esigere dall'essere umano un impegno verso il mondo, se non si riconoscono e non si valorizzano al tempo stesso le sue particolari capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità.

Capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità: sembra di sentire le parole di Norman Borlaug, in una intervista radiofonica rilasciata da un assolato campo di grano del Nuovo Messico, negli anni ’60:

Non sono il tipo che se ne sta in un angolo con le mani in mano, mentre la popolazione mondiale cresce più velocemente di quanto non riesca a crescere la produzione di cibo. Se c’è un contributo che posso dare a questo mondo, dal momento che sappiamo che le evidenze scientifiche ci danno ragione e abbiamo materiale a sufficienza per realizzare un programma sensato, beh, ho intenzione di giocare quella carta, e di giocarla fino in fondo.

I am not one to sit idly by, and see man breed himself into a corner by increasing his numbers faster than food production is being increased...and if I have anything to contribute to this world, when I know that scientific facts are right, and we have materials that can be brought together in a meaningful production program, I'm going to play that card and I'm going to play it hard.

Abbiamo parlato del passato, lontano e recente, dobbiamo ora arrivare ai giorni nostri. C’è un’illusione, molto pericolosa, che si sta diffondendo soprattutto in Occidente, ed è quella che ci sia abbastanza cibo per tutti. La distanza dai problemi spesso distorce la corretta percezione della realtà, ma non dobbiamo dimenticare che oggi soffrono la fame più o meno - un po’ meno ma non molte meno - le stesse persone che soffrivano la fame negli anni ’50. Sono molte di più le persone che riescono a mangiare, certo, ma quelle che soffrono la fame sono ancora circa un miliardo.

Vi ricordate quello che è successo nel 2008 e nel 2011? Se vivete in Europa o in Nord America, e non siete agricoltori, probabilmente non ve lo ricordate. Guardate questo grafico, tratto da un approfondimento del Wall Street Journal proprio del 2011.

fig.5

Fig. 5: Prezzi del cibo, produzione e consumo globale di cereali. Fonte: FAO e USDA

Sulla destra la produzione e il consumo di cereali, la domanda e l’offerta, sulla sinistra l’andamento dei prezzi dei cereali, che dipendeva dal rapporto tra domanda e offerta. Si vede molto bene come proprio in occasione di due cali di produzione, nelle stagioni agrarie 2007-2008 e 2010-2011, quando il consumo ha superato la produzione e non c’erano sufficienti scorte per sopperire al buco dell’offerta, i prezzi siano letteralmente schizzati alle stelle. In qualche caso sono addirittura raddoppiati. Per questo se foste agricoltori ve ne ricordereste bene.

I prezzi sono raddoppiati, nonostante un calo non così significativo della produzione. Per quale ragione? La causa è nella anelasticità dei prezzi del cibo: sono necessari forti aumenti di prezzo per indurre un calo di consumi, e il motivo è evidente. Se aumenta il prezzo del cibo, siamo portati a rinunciare ad altre cose prima di ridurre il consumo di cibo. Ma perché non molti si ricordano quello che dovrebbe, a prima vista, essere ricordato come un cataclisma? La risposta è in questo grafico, tratto dall’Economist, che rappresenta la porzione di reddito che le persone destinano al cibo, nei vari paesi.

fig.6

Fig. 6: spesa settimanale per il cibo a persona. Fonte USDA

Le famiglie nei paesi ricchi spendono circa il 10% del loro budget in cibo, ma solo il 20% del prezzo del cibo proviene dalla materia prima. Il resto proviene dal marketing, dal confezionamento, dal trasporto e dagli utili di chi porta il cibo dalla fattoria al negozio. Invece nei paesi in via di sviluppo la gente spende mediamente per il cibo ben più del 10% del bilancio familiare, e le famiglie più povere arrivano a spendere tra il 50% e l’80% dei loro redditi. Qui solo una piccola porzione va ai processi di commercializzazione e confezionamento: la maggior parte delle famiglie acquistano cibo non trasformato, divenendo più vulnerabili agli aumenti di prezzo dei generi alimentari.

Possiamo provare a riassumere quello che è successo negli ultimi anni: la crescita economica di paesi come la Cina, l’India, l’Indonesia, il Brasile, enormi regioni del Pianeta, ha migliorato sensibilmente le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone. E’ stato il frutto della globalizzazione, dell’apertura dei mercati, dell’accessibilità alla conoscenza e alle tecnologie, il frutto della libertà, della volontà, della capacità di conoscenza. Centinaia di migliaia di persone hanno adeguato il loro stile di vita al reddito, e comprensibilmente lo hanno fatto prima di tutto a tavola, abbandonando le diete povere tipiche delle economie di sussistenza. Questo ha fatto aumentare sensibilmente la domanda globale di cibo: in qualche caso, come nel 2008 e nel 2011, la domanda ha superato l’offerta disponibile, e i prezzi sono aumentati a dismisura. Questo aumento di prezzo segnala quello che dicevamo prima: non è vero che vi sia cibo a sufficienza per tutti.

L’aumento dei prezzi del cibo di quegli anni, benché fosse quasi impercettibile da noi, è stato vissuto come una catastrofe dalla fasce di popolazione più povere di molti paesi in via di sviluppo, che proprio per l’approvvigionamento di materie prime agricole hanno sperimentato tassi di inflazione a due cifre. Forse ricorderete che nei paesi del Nord Africa e del Maghreb, tipicamente importatori netti di cereali, le rivolte della cosiddetta Primavera Araba sono cominciate con gli assalti ai forni, per l’aumento del prezzo del pane.

Oltre alla volontà, alla libertà e alla capacità di conoscenza, è necessaria quindi una massiccia dose di responsabilità. A pensarci bene, l’intraprendenza di Norman Borlaug era figlia della stessa paura che animava il pessimismo di Tertulliano: che non ci fosse abbastanza da mangiare per tutti. “Non sono il tipo che se ne sta in un angolo con le mani in mano, mentre la popolazione mondiale cresce più velocemente di quanto non riesca a crescere la produzione di cibo” diceva Borlaug. “A stento ci bastano le risorse, e maggiori sono i bisogni, più alti sono i nostri lamenti, poiché la natura già non è in grado di sostenerci”, diceva Tertulliano. La capacità produttiva della Terra, la sostenibilità economica e ambientale della produzione del cibo, era la preoccupazione di entrambi, come oggi è la preoccupazione di Francesco nell’enciclica Laudato si’. E l’insistenza dell’enciclica su volontà, libertà, capacità di conoscenza e responsabilità ci dice molto su quale sia, tra le due, la strada che Francesco invita a seguire.

Torniamo a considerare i grafici di cui abbiamo parlato prima, in particolare quello sulla quantità di terra coltivabile per unità di prodotto. Come dicevamo, la terra necessaria a produrre la stessa quantità di cibo è calata del 68%, ma questo non vuol dire che abbiamo coltivato meno terra. La quantità di terra coltivata è rimasta, nel complesso, costante. Qui potete vedere il consumo di
fertilizzanti azotati, fosfatici e potassici, di acqua e di terra coltivabile negli Stati Uniti dal 1910 a oggi.

fig.7

Fig. 7: Consumo assoluto di 5 input produttivi agricoli. Fonte: USGS e USDA

Sono tutti aumentati, tranne la terra coltivabile, che è rimasta più o meno costante. Alcune proiezioni sull’uso della terra coltivabile prevedono una sua diminuzione, negli anni che verranno. Al tempo stesso si può vedere come oggi cominci a declinare anche l’uso dei fertilizzanti chimici, e lo stesso sta avvenendo per gli agrofarmaci. Abbiamo rinunciato a produrre di più? Ci siamo arresi come Tertulliano?

No. Semplicemente, oggi è il miglioramento genetico a essere il principale vettore di innovazione in campo agricolo: la difesa delle colture dai parassiti passa soprattutto dalla creazione di varietà resistenti ai parassiti stessi, per cui si riduce l’impiego dei pesticidi, e si razionalizza quello degli erbicidi, le cui molecole si degradano sempre più facilmente, lasciando sempre meno residui. Il progresso della responsabilità è già in corso. Esistono nuove varietà di mais resistenti agli stress idrici, che garantiscono rese costanti anche con un minore impiego di acqua, e, per quanto riguarda l’irrigazione, le nuove tecniche di distribuzione a goccia permettono di risparmiare acqua e energia.

Dal punto di vista della meccanizzazione agricola, le nuove conoscenze agronomiche hanno permesso di costruire macchinari che riducono l’impatto e la profondità delle lavorazioni, diminuendo gli interventi in campo, e l’uso dei combustibili fossili per le lavorazioni.

Il vero biologico è tecnologico. Esso è il frutto della capacità di conoscenza, volontà, libertà e responsabilità dell’essere umano.

Ma c’è un’altra “responsabilità” che è giusto invocare, ed è quella dei governi. I dati sulla crescita di molti paesi dell’Africa sub-sahariana evidenziano il successo di quegli Stati che non hanno ostacolato, ma assecondato i processi di globalizzazione. L’apertura ai mercati e l’aumento della domanda di materie prime agricole hanno favorito forti investimenti esteri in terra coltivabile, e questi hanno fatto di più per l’Africa di quanto non siano stati in grado di fare decenni di aiuti allo sviluppo guidati dalle organizzazioni sovranazionali. Ma esiste il rischio che si tratti di uno sviluppo effimero, se non verranno realizzate infrastrutture efficienti e permanenti, e se la tecnologia non sarà resa disponibile anche ai produttori locali.

E’ inutile avere varietà di mais che si difendono da sole dai parassiti, e che hanno bisogno di poca acqua, se poi non esistono le strade per portare i raccolti dai campi ai magazzini e dai magazzini ai porti. L’apertura dei mercati non passa solo per la rimozione degli ostacoli normativi, ma anche per la costruzione fisica di vie di comunicazione e di tutte le infrastrutture necessarie, che oggi mancano. Non esiste un mercato veramente libero se questo non è accessibile. Il rischio che un cambio di destinazione degli investimenti esteri lasci un deserto dietro di sé è reale, e sarebbe disastroso dopo che lo sviluppo di questi anni ha causato tanti drastici - e spesso traumatici, basti pensare alla crescita delle bidonville delle grandi città - cambiamenti nello stile di vita delle popolazioni.

Pensiamo agli sprechi di cibo, sui quali molto si concentra Francesco. I rapporti della FAO ci dicono che ogni anno tra il 30 e il 50 per cento di ciò che viene prodotto finisce nella spazzatura. Ma non si parla solo dei nostri sprechi, della roba che noi occidentali buttiamo invece di consumare: nei paesi in via di sviluppo la percentuale di cibo sprecato è all’incirca la stessa, solo che viene persa in maniere e per ragioni diverse. Se in occidente si spreca vicino alla tavola, nei paesi meno sviluppati gli sprechi, che sarebbe più corretto definire “perdite”, avvengono vicino alla fattoria: cominciano direttamente sul campo, con le colture non adeguatamente protette dai parassiti, e continuano nelle fasi di stoccaggio e trasporto, nelle quali l’assenza di silos, magazzini, strade, ferrovie, mezzi di trasporto, refrigeratori e impianti di conservazione e trasformazione adeguati gioca un ruolo fondamentale.

Ancora una volta è la creatività degli uomini, prima che la loro arrendevolezza, ad essere chiamata all’azione.