Giuliano Amato grande

L’idea che la Francia del 1980, uscita dal comando integrato della NATO dal ‘66 per volontà di De Gaulle, si sia prestata a fare da sicario per un progetto "americano", condotto però in territorio italiano, su un Mediterraneo soprattutto allora iper-militarizzato, per uccidere un Gheddafi in volo su un caccia MiG un po’ come il presidente americano di “Indipendence Day”; l’idea che Bettino Craxi, ai tempi segretario del PSI, semplice parlamentare nazionale ed europeo fosse venuto a conoscenza di questo complicatissimo piano volto a simulare un’esercitazione della NATO con molti aerei in azione, di cui invece il Governo italiano sarebbe stato all’oscuro, e abbia chissà con quali mezzi preavvertito Gheddafi, avrebbero dovuto già di per sé suggerire, ad essere fin troppo rispettosi, notevole scetticismo sulle dichiarazioni/confessioni pubbliche di Giuliano Amato a proposito della tragedia di Ustica.

Anche per questo, era prevedibile che l'ex Presidente del Consiglio e della Corte Costituzionale avrebbe precisato di non possedere alcun elemento a supporto della propria versione, ricontestualizzando le proprie gravi accuse alla Repubblica francese. Nondimeno, le dichiarazioni hanno generato un turbinio di ricostruzioni suoi quotidiani italiani, quasi tutte a supporto della tesi della battaglia aerea, delle responsabilità francesi e del complotto della NATO contro Gheddafi. Per la gran parte del Paese, in modo più confuso o più nitido, tale ricostruzione è ormai verità storica strappata alle maglie di un potere che ha cercato di soffocarla.

Lungi da noi pensare di offrire una versione risolutiva sulla tragedia di Ustica, anche se il rasoio di Occam porta ad escludere la tesi di un missile che non ha lasciato tracce, tanto da doversi poi immaginare l’improbabile scenario della “semi-collisione”, e suggerisce di accogliere le conclusioni del Collegio Misiti e dunque la tesi di una bomba a bordo dell’aereo.

Più opportuno è invece ragionare sul rapporto che l’Italia ha, che le élite italiane hanno con la propria storia recente. Una scatola nera indecifrabile, in cui si aspetta che un grande vecchio getti finalmente una luce, rivelando indicibili segreti quasi sempre a sfondo internazionale e non bisognosi di alcuna nuova prova. Giusto un “dicunt” ai piani alti. Non solo, infatti, la versione “rivelata” da Amato non conteneva alcun elemento di novità (se non nella spregevole chiamata in causa di Craxi, molto al di fuori di ogni tempo massimo), ma si tratta di una tesi particolarmente diffusa ai vertici istituzionali italiani. C’è chi vuol vedere in questo, se non una prova, quantomeno un indizio della sua veridicità; di certo esprime un riflesso più ampio, profondamente radicato nella cultura italiana.

Basti pensare al seguente commento, certamente condiviso nel Paese, dell’On. Luigi Marattin (non una voce tipicamente populista): “Certo che se un giorno (improbabile) qualcuno dovesse alzarsi e dire "basta, vi dico cosa è successo davvero a Moro" (o a Piazza Fontana, o qualsiasi altro mistero italiano) e ricevesse come reazione generale un "bah, perché adesso? Perché non ha parlato prima? Chi vuole colpire?" significherebbe solo una cosa: che questo Paese, la verità su quanto accaduto nella sua storia repubblicana, non la vuole davvero conoscere. O non è pronta [sic] a farlo”.

La concezione che emerge è quella della messianica attesa di una “controverità” illuminante che faccia luce sulla storia della Repubblica. L’idea che nell'Italia primo repubblicana, linea di faglia tra i blocchi est e ovest, gli avvenimenti storici fossero mere increspature prodotte da movimenti tettonici delle grandi potenze, generati spesso altrove e lontano, oppure da una indecifrabile scatola nera della nazione, quasi sempre comunque legata a forze straniere. Non c’è conoscenza (approssimativa, limitata e con diverse pagine oscure) della nostra storia recente come strumento imperfetto per interpretare il presente, c’è la storia come grande ombra su cui proiettare qualsiasi scenario. Non può essere davvero parte della nostra identità, perché è un non-luogo inaccessibile che può essere solo rivelato dall’alto, un sottoscala che poco ha a che fare con la storia italiana “ufficiale”.

Pazienza quindi se del sequestro Moro (“di cui non sappiamo praticamente nulla” come scrisse sempre Marattin intercettando un sentimento diffuso) in realtà sappiamo praticamente tutto. Pazienza se anche sulla strage di Piazza Fontana abbiamo ormai un quadro piuttosto preciso in particolare grazie a decenni di lavoro di uno dei migliori magistrati italiani, ovvero Guido Salvini. In questa visione adolescenziale della storia, distinguere tra le tante pagine che sono state faticosamente ricostruite e quelle ancora effettivamente oscure diventa un esercizio anti-narrativo e forse perfino responsabilizzante.

Al di là della specifica tragicità di Ustica (di cui in ogni caso sappiamo pochissimo), è invece necessario realizzare la natura assolutamente interna, italiana, perfino popolare, dei tornanti della nostra storia recente: dal terrorismo a Tangentopoli fino alla mafia militarizzata di Riina. Una storia in gran parte radicata nel tessuto sociale del Paese e non solo manovrata da oscuri burattinai e attori internazionali. L’immaturità del nostro rapporto con la storia della prima repubblica è un riflesso della immaturità del nostro rapporto con le istituzioni; una forma appena più sofisticata di complottismo e gentismo. Una visione mitologica e disumanizzante che tradisce davvero, questa sì, la mancata volontà di fare i conti con il proprio passato.