Di Gregorio gargoyle

Nei fatti, forse, la decisione di Donald Trump di uscire dagli accordi di Parigi sul clima non determinerà effetti catastrofici. Non per merito suo, né della sua decisione, soprattutto non perché non esista il problema del riscaldamento globale e quello conseguente - e più 'avvolgente' - dei cambiamenti climatici. Semplicemente, una buona parte dell'industria a stelle e strisce è ormai già orientata verso una produzione 'pulita' (termine da usare e leggere sempre in maniera relativa) e i cittadini - stando ai sondaggi - sono per la grande maggioranza convinti che il riscaldamento globale esista, e che sia un problema. In questa ottica possiamo leggere ad esempio la presa di posizione dell'ex sindaco di New York Michael Bloomberg.



È una lettura ottimistica, perché l'altra faccia della medaglia è che l'azione di Trump - nient'affatto inaspettata, anzi 'tipica' in ottica Repubblicana e free market oriented alle questioni climatiche - lasci spazio al 'liberi tutti': imprese, cittadini, ex partner dell'accordo di Parigi - quelli più restii a firmarlo, nonostante la sua debolezza intrinseca - potrebbero da un lato facilmente dimenticare il ruolo dell'attività antropica nel riscaldo globale o, dall'altro, riprendere a ignorarlo, con tutto quel che ne consegue in termini di emissione di CO2 nell'atmosfera.

Non è un'ipotesi così peregrina se proprio nel programma di Trump sull'energia il focus principale è centrato sul ritorno allo sfruttamento del carbone - clean (pulito, che non esiste) o meno -, ovvero la fonte energetica più inquinante che conosciamo, in modo da recuperare indipendenza energetica, competitività sul mercato globale e occupazione. Proprio quest'ultimo claim è forse lo scopo vero della mossa di Trump, un segnale forte ai suoi elettori, quelli più colpiti dai cambiamenti economici e sociali degli ultimi decenni e per i quali la lotta ai cambiamenti climatici diventa, ideologicamente, capro espiatorio.



Ma è proprio qui che si insidia il rischio più grande: ignorare gli effetti climatici che deriveranno dal tentativo di ripristinare uno status quo ante spingendo nuovamente su attività altamente climalternati, come il ritorno al carbone (comunque ancora oggi fonte primaria di approvvigionamento energetico per gli Usa, anche se in declino da almeno un decennio) e al fossile, in nome di una (supposta) nuova crescita socio-economica. Per questo ci sono buone ragioni per ritenere l'uscita degli Usa dagli accordi di Parigi un pessimo e pericoloso segnale: quello di conferire una sostanziale irrilevanza agli studi sul clima, arrivando all'inazione quando si tratta di mitigazione del rischio e addirittura alla ripresa di attività dannose dal punto di vista ambientale, vanificando gli sforzi fatti anche verso le economie in crescita affinché adattino i loro piani produttivi a soluzioni meno impattanti.

Non è un caso che la parte conservatrice della politica e dell'economia - anche quando, senza alcuna convinzione, accetta l'origine antropica del riscaldamento globale - supporti policy orientate a lasciare le cose come stanno, a sfruttare il più possibile ogni risorsa energetica, indipendentemente dai suoi effetti ambientali, e lasciare che l'unico 'decisore' vero sia semplicemente il libero mercato con le sue doti taumaturgiche in grado di orientare sempre verso la miglior scelta possibile. Questo sulla base di un assunto di fondo: in ogni caso saremo in grado di adattarci (in senso proprio di adattamento evolutivo) alle nuove condizioni, per cui non ha senso rinunciare oggi a tutte le possibilità che sono sul tavolo, qualsiasi sia il loro effetto in chiave di alterazione del clima, sarà il mercato a indicare la strada in base al sentimento dei consumatori. Si rinuncia così, bypassandola, alla responsabilità.



Questo tipo di impostazione - ovviamente qui banalizzata per brevità e semplicità - è però figlia di forti incomprensioni, volontarie o meno, su come funziona l'adattamento e sulle scala temporale in cui incidono il riscaldamento globale di matrice antropica e i cambiamenti climatici. Quando si abbraccia una visione dell'uomo come forza che domina la natura, in grado di adattarsi alle condizioni anche più estreme, portando come esempio ciò che è successo nel corso della nostra storia, non si considerano alcuni fattori determinanti.

L'adattamento della nostra specie si è esplicato in un arco di tempo (relativamente) lunghissimo, in condizioni molto diverse rispetto a oggi, sia dal punto di vista quantitativo (non siamo stai mai così tanti su questo pianeta, e la vita media non è mai stata così alta) che qualitativo: gli adattamenti comportano il 'sacrificio' di molti individui, cosa che oggi non possiamo accettare stando semplicemente a guardare, tant'è che interveniamo direttamente su di esso, ad esempio, con la scienza biomedica e la tecnologia. L'adattamento ai cambiamenti, pur ineluttabile, non può essere un argomento a sostegno della rinuncia al governo degli stessi, soprattutto quelli dei quali siamo responsabili, come il global warming.

D'altronde, davanti alle epidemie e alle crisi sanitarie agiamo, prendiamo provvedimenti, cerchiamo soluzioni che non sono meramente 'adattative', non sono lasciate al mercato, ma sono attive e indirizzate al contrasto e alla mitigazione e prevedono azioni sul piano sociale, politico-economico e di governo. E non può essere altrimenti anche per un altro motivo: anche se ci consideriamo una specie dominante, in grado di manipolare la natura, non abbiamo alcuna garanzia di sopravvivenza. Non siamo sempre esistiti e non è detto che saremo in grado di sopravvivere, mantenendo le condizioni odierne di sviluppo e benessere, in futuro. La specie potrà anche durare, ma non c'è scritto da nessuna parte che il prezzo da pagare non sia troppo elevato secondo i nostri standard morali e culturali, esattamente gli stessi che si pretende di preservare rinunciando all'azione di contrasto al global warming. 



Altro fattore è che le temperature si stanno alzando in una maniera troppo veloce e nella stessa maniera si verificano i mutamenti climatici, introducendo nella nostra storia e in quella del pianeta una 'singolarità' (mi si passi la forzatura) che contrasta con i lunghi tempi dell'evoluzione nostra e del resto degli esseri viventi che dividono con noi gli stessi spazi. Le nostre enormi capacità di intervento nel corso degli eventi non possono farci dimenticare che, volenti o nolenti, la nostra sopravvivenza non dipende solo da esse ma da complessi meccanismi che il global warming e l'attività antropica - mai così incisiva - stanno modificando (acidificazione degli oceani, innalzamento dei livelli del mare, scioglimento dei ghiacciai, desertificazione, riduzione delle risorse idriche, deforestazione, scomparsa di biodiversità) in maniera molto accelerata, con effetti devastanti, sia attuali che potenziali in tempi per noi - che viviamo qui e ora - lunghi, ma ridottissimi in un'ottica generale. Non considerare il fattore tempo quando si parla di global warming e climate change è equivalente a non riconoscere validità agli studi sul clima. 



Mi si consenta una breve digressione argomentativa nel tentativo di spazzare il campo dallo scetticismo climatico: il 97% dei ricercatori che si occupano attivamente del clima sono concordi nel ritenere reale il riscaldamento globale e reali i cambiamenti climatici da esso prodotti (ieri, oggi e domani). Si sente spesso accostare il restante 3% al nome di Galileo, o degli altri grandi che hanno rivoluzionato il pensiero scientifico occidentale, per dar forza allo scetticismo. Ebbene, l'analisi dei lavori scientifici di questo famoso 3% ha mostrato l'esistenza di enormi falle metodologiche nei loro studi: sono in minoranza non perché controcorrente, non perché elevati dalla mania ambientalista che colpisce i loro colleghi ma, semplicemente, perché sbagliano.

È vero che all'interno della comunità degli esperti esistono divergenze, esistono contrasti, esiste dibattito, ma niente di tutto questo esiste sul risultato finale: un'alta probabilità che il global warming di origine antropica sia reale (e non colpa del Sole), così come gli effetti sul clima. Parlo di "probabilità" di proposito, rifiutando senza paura la parola certezza tanto invocata dagli scettici, per un semplice motivo: la scienza odierna, quella su cui facciamo costantemente affidamento e delle cui 'certezze' ci facciamo spesso portatori, è invece sempre più spostata verso le approssimazioni probabilistiche, in tensione con la grande e sempre crescente complessità delle cose di questo mondo, compresa la conoscenza scientifica.

Si pensi a tutte le ultime scoperte della fisica, dove l'osservazione diretta, quella fatta coi nostri occhi, non è più possibile e dove i modelli sperimentali puntano a raggiungere livelli di confidenza elevati tramite l'osservazione indiretta dei fenomeni. L'assenza di una certezza a cui spesso ci riferiamo quando parliamo di scienza, non rende però meno 'veri', meno credibili e meno affidabili i suoi risultati e, infatti, non contestiamo in alcun modo l'osservazione del Bosone di Higgs, anzi, rendendoci conto della complessità della sua ricerca, plaudiamo al grande lavoro fatto dagli scienziati.

Eppure in molti, troppi, si sentono in diritto di contestare o mettere in dubbio ciò che la scienza del clima ha da dire. Il motivo lo abbiamo già spiegato nell'ultima monografia di Strade: la scienza del clima implica mettere in discussione alcuni sistemi valoriali, visioni del mondo, attacca la conservazione dello status quo perché suggerisce azioni positive di cambiamento, per cui alcuni sono portati a rifiutarla. Ma, prendendo per una volta in prestito le parole di Neil deGrass Tyson, "the good thing about science is that it's true whether or not you believe in it". Vale per la fisica, vale per la scienza del clima. 



Se però a quell'enorme massa di studi sul clima riconosciamo il valore che meritano, dobbiamo anche riconoscere che i cambiamenti accelerati che quegli studi ci prospettano non possono non influire anche sui nostri sistemi economici, aggiungendo complessità a complessità. Pensare di affrontarli mantenendo gli stessi modelli di sviluppo che fin qui sono stati validi perché, in condizioni diverse, hanno portato sviluppo e crescita, è una strada che sembra esattamente quella da non percorrere. Neppure questi modelli sono sempre esistiti, anzi, sono piuttosto recenti e sono perfino cambiati in questo breve lasso di tempo - non a caso parliamo di "rivoluzioni", da quella industriale e quella agricola, fino a quella digitale -, e non c'è ragione per cui non possano anch'essi essere modificati o rivoluzionati per adattarsi a nuove condizioni.

E non c'è ragione per pensare che siano modifiche o rivoluzioni che spingano verso la decrescita (secondo Forbes, su dati del governo Usa, gli impiegati nel settore del solare sono di più di quelli dell'industria fossile già oggi), in antitesi a ciò che è accaduto finora: si parla tanto degli effetti negativi di una economia a bassa emissione di CO2, ma si parla pochissimo - da parte conservatrice - degli effetti devastanti di tipo sociale ed economico che già oggi sta esplicando il modello di sviluppo ad alte emissioni, soprattutto nei Paesi più poveri, i più colpiti dai cambiamenti climatici. Si bypassano i costi attuali - in termini non solo economici ma anche sociali, naturali e perfino di salubrità delle popolazioni - per concentrarsi sui costi futuri.

E anziché pensare alle soluzioni alternative percorribili (già elaborate o da elaborare grazie alla ricerca), si risponde con un ritorno al passato, di quando tutto funzionava a dovere senza la seccatura del clima. Ma è proprio questa una rinuncia alla sfida dell'innovazione, una rinuncia alla responsabilità. Nessuno dice che sia una cosa semplice, nessuno dice che non ci saranno sacrifici (ogni cosa che facciamo comporta un qualche sacrificio), ma farsene carico è doveroso e in un equilibrio globale oggi piuttosto fragile, anche i piccoli segnali possono, forse, fare la differenza e farla in negativo, soprattutto se, come nel caso di Trump, le argomentazioni a supporto sono, queste sì, falsità conclamate.