Iran, regime change o regime collapse?
Istituzioni ed economia

Il dibattito internazionale sul futuro dell'Iran si concentra in queste ore su una questione fondamentale, ma probabilmente mal posta: il cambio di regime. Questo approccio suggerisce un'azione esterna o un'orchestrata transizione politica. Tuttavia, la realtà sul campo, le dinamiche interne e le lezioni della storia ci spingono a considerare una prospettiva diversa e più appropriata: quella del collasso del regime.
Non si tratta di ipotizzare un'imposizione dall'esterno, quanto piuttosto un esito potenziale delle tensioni interne insostenibili che potrebbero portare a una disgregazione spontanea del sistema attuale.
Questo concetto ridefinisce il fulcro della discussione. Non si tratta più solo di cosa gli attori esterni potrebbero o dovrebbero fare per un cambio, ma di come la comunità internazionale e la stessa società iraniana potrebbero gestire un eventuale collasso generato internamente. È su questo scenario, spesso dipinto con toni apocalittici, che si concentra gran parte dell'ansia globale – dalla frammentazione etnica del paese a un'escalation di violenza guidata da estremisti anti-occidentali. Tuttavia, in questa narrazione, si tende a trascurare l'importanza delle lezioni storiche, in particolare quelle derivanti dalla caduta dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est e delle dittature iberiche nonché la recente lezione siriana.
Il timore più diffuso tra gli analisti e i decisori politici riguarda l'instabilità che potrebbe seguire alla caduta del regime degli ayatollah a Teheran. Si paventa l'ipotesi di una balcanizzazione dell'Iran, un paese con significative minoranze etniche (azeri, curdi, baluchi, arabi) che potrebbero cercare maggiore autonomia o addirittura l'indipendenza, scatenando conflitti interni e regionali. Altrettanto preoccupante è la prospettiva che un vuoto di potere possa essere riempito da elementi ancora più radicali e anti-occidentali, trasformando l’Iran in un focolaio di terrorismo e, se possibile, un attore destabilizzante di proporzioni ancora maggiori di quanto sia stato negli ultimi decenni. Questi scenari, spesso dipinti con toni apocalittici, hanno storicamente contribuito a un'atmosfera di paralisi e ambivalenza politica nelle cancellerie e nell’opinione pubblica mondiale.
L'esperienza della Siria, dove la caduta del regime di Bashar al-Assad è stata a lungo temuta come il preludio a un caos incontrollabile, offre oggi una lezione che smentisce molte delle previsioni occidentali più pessimistiche. Contrariamente alle previsioni delle tante Cassandre che prevedevano una Siria dilaniata da ulteriore violenza, frammentazione o ascesa di estremismi incontrollati, la realtà emersa a Damasco è stata sorprendentemente diversa. Il nuovo regime installatosi nella capitale siriana ha mostrato, fin dalle prime fasi, una notevole capacità di consolidamento e stabilizzazione.
Lungi dal generare un'ulteriore spirale di caos e morte, questa nuova leadership sta emergendo come un elemento di stabilità in un angolo di Medio Oriente tradizionalmente turbolento. Sebbene le sfide siano immense e il cammino verso una piena ripresa sia lungo, l'ordine che si sta ristabilendo suggerisce che anche in contesti estremamente complessi e dopo anni di conflitto, il collasso di un regime autoritario non porta necessariamente al baratro più profondo. Questo esito inaspettato in Siria ci invita a riconsiderare i nostri assunti sulla "inevitabilità del caos" e sulla capacità di attori emergenti di imporsi come forze stabilizzatrici.
Tuttavia, questa narrazione non è del tutto nuova. La caduta dei regimi comunisti nell'Europa orientale alla fine degli anni '80 è un esempio lampante di come il collasso di sistemi repressivi non abbia necessariamente portato al caos generalizzato. Sebbene vi siano stati momenti di incertezza e sfide significative, la transizione verso sistemi più aperti è avvenuta in larga parte in modo relativamente pacifico. Paesi come la Polonia, l'Ungheria o la Cecoslovacchia hanno dimostrato una sorprendente capacità di adattamento e di costruzione di nuove istituzioni. Le società civili, pur oppresse per decenni, si sono rivelate capaci di mobilitazione e di leadership, fornendo un'alternativa credibile al vecchio ordine. Allo stesso modo, le transizioni in Spagna e Portogallo, dopo la fine delle rispettive dittature, offrono spunti preziosi. In entrambi i casi, la paura del caos e della guerra civile era palpabile. Eppure, grazie a un mix di leadership politica pragmatica, processi di riconciliazione nazionale e un forte desiderio di integrazione internazionale dopo decenni di autarchia e isolazionismo, queste nazioni sono riuscite a stabilire democrazie stabili e a prosperare economicamente.
Applicare queste lezioni all'Iran significa riconsiderare la potenziale resilienza della società iraniana e la sua capacità di auto-organizzazione, anche in circostanze estreme. Nonostante la repressione, esiste una vibrante società civile, un'ampia classe media istruita e una gioventù desiderosa di cambiamento. Le proteste degli ultimi anni, pur brutalmente represse, hanno dimostrato un profondo malcontento e una sete di libertà e dignità. Sebbene in Iran manchi attualmente un'opposizione organizzata, coesa e con una leadership chiara e riconosciuta sia internamente che esternamente, questo non preclude necessariamente la possibilità di un'alternativa post-regime che possa tendere verso una qualche forma di stabilità e moderazione. L'assenza di un'alternativa politica tangibile e unitaria rimane una criticità, ma la sorprendente evoluzione siriana ci invita a non escludere la capacità di attori interni di riempire un vuoto di potere in modi imprevisti, che potrebbero non corrispondere alle previsioni più funeste di caos.
Il dibattito sul futuro dell'Iran deve quindi spostarsi da una visione puramente catastrofica a un'analisi che includa la possibilità di transizioni complesse ma gestibili, riconoscendo al contempo le criticità attuali. Riconoscere la forza delle lezioni storiche, inclusa la più recente e sorprendente della Siria, non significa ignorare le sfide specifiche dell'Iran. Al contrario, implica una duplice riflessione: da un lato, non lasciarsi paralizzare dalla paura di scenari apocalittici che potrebbero non concretizzarsi; dall'altro, la necessità di considerare come la comunità internazionale possa sostenere la costruzione di una futura alternativa politica credibile e unificata, promuovendo il dialogo tra le diverse componenti della società civile iraniana e tra gli esuli, al fine di evitare che, in caso di crisi, il vuoto di potere sia colmato da forze incontrollabili o che la transizione sia più dolorosa del necessario.
