Ayatollah Ali Khamenei casting his vote for 2017 election 3

Il Medio Oriente del 2025 è un mosaico di crisi interconnesse che hanno raggiunto un punto di rottura. L'instabilità, un tempo latente, è oggi manifesta e diffusa, alimentata da due poli principali di tensione. Da un lato, la Repubblica Islamica dell'Iran proietta la sua influenza attraverso una rete di attori non-statali, dallo Yemen alla Siria e al Libano, e alimenta l'incertezza globale con le sue ambizioni nucleari. Dall'altro, il conflitto israelo-palestinese ha toccato un nuovo e devastante apice. Il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre 2023 e la successiva, massiccia e brutale risposta militare del governo israeliano nella Striscia di Gaza hanno generato non solo una catastrofe morale e umanitaria, ma hanno anche agito da detonatore per le tensioni regionali, attivando fronti e polarizzando l'opinione pubblica mondiale.

In questo scenario, la storica guerra-ombra tra Israele e Iran è tracimata in un confronto militare diretto, spingendo la regione sull'orlo di un conflitto generalizzato. Questa escalation impone un cambio di paradigma: è necessario superare il posizionamento tattico nel presente e avviare un'analisi strategica di lungo termine. La domanda cruciale diventa: come potrebbe apparire il Medio Oriente una volta che le armi smetteranno di segnare il tempo? Immaginare un Iran senza l'attuale regime non significa semplicemente individuare un unico perdente nell’attuale conflitto, ma esplorare la possibilità di riconfigurare uno degli assi portanti dell'intera architettura regionale, aprendo la via a un nuovo e, si spera, più stabile equilibrio.

Per comprendere questo potenziale, è necessario non fermare lo sguardo agli ultimi quattro decenni, ma analizzare la millenaria e complessa storia persiana. A differenza dell'attuale regime, la cui legittimità politica si fonda sull'ideologia teocratico-aristotelica del Velayat-e Faqih, i grandi imperi che hanno segnato la storia millenaria del paese operavano secondo un paradigma di Realpolitik. L'Impero Achemenide (550-330 a.C.), fondato da Ciro il Grande, non imponeva la propria religione ma governava un mosaico di popoli attraverso un sistema di satrapie, garantendo notevole autonomia locale in cambio di tributi e lealtà al Re dei Re.

Questo modello di gestione multiculturale si contrappone nettamente alla missione ideologica odierna. Anche imperi successivi, come i Sassanidi, ingaggiarono con Roma e Bisanzio una secolare competizione geopolitica per il controllo del Levante, una rivalità basata sulla sfera d'influenza, non su una guerra santa. La storia iraniana è fatta anche di slanci democratici. L’Iran fu teatro di una delle prime grandi lotte per il costituzionalismo nel mondo non-occidentale. La Rivoluzione Costituzionale (1905-1911) vide un'alleanza di mercanti, intellettuali e clero progressista unirsi per porre fine all'assolutismo della dinastia Qajar e all'ingerenza straniera, istituendo un parlamento e una costituzione.

Questo slancio democratico riemerse con forza negli anni '50 con il governo nazionalista di Mohammad Mossadegh, che nazionalizzò l'industria petrolifera percepita come uno strumento di sfruttamento coloniale. L'esperimento fu però stroncato nel 1953 dal colpo di stato orchestrato da CIA e MI6, un evento traumatico che interruppe il percorso democratico dell'Iran e instillò nella psiche nazionale una profonda sfiducia verso l'Occidente, terreno fertile per la rivoluzione del 1979.

Un Iran liberato dall'attuale regime, attingendo a questa duplice eredità, non sarebbe un vuoto di potere. Le sue priorità cambierebbero radicalmente: la fine della dottrina islamo-assolutista dei mullah permetterebbe un riavvicinamento con i vicini; il focus sulla ricostruzione interna prosciugherebbe i fondi ai proxy regionali; la reintegrazione nell'economia globale e un programma nucleare trasparente lo trasformerebbero in un motore di crescita e stabilità.

Tuttavia, una trasformazione così profonda, per quanto auspicabile, non sarebbe indolore per tutti. Un Iran democratico e potente altererebbe radicalmente l'equilibrio di potere, rappresentando una minaccia strategica per alcuni e una rivoluzione per altri. Per la Russia, i pericoli sarebbero immensi. L'attuale relazione con Teheran si basa sull’anti-americanismo. Un Iran filo-occidentale farebbe crollare il fronte anti-egemonico che Mosca cerca di costruire con Pechino e porrebbe fine alla cooperazione militare. Il colpo mortale, però, arriverebbe dal settore energetico.

Con quasi il 17% delle riserve mondiali di gas, un Iran non sanzionato potrebbe diventare un fornitore chiave per l'Europa, distruggendo il più potente strumento di ricatto politico di Mosca. Anche le monarchie sunnite del Golfo affronterebbero nuove e complesse minacce. Se la scomparsa del regime teocratico eliminerebbe il pericolo militare diretto, farebbe emergere sfide più insidiose. Verrebbe meno il "nemico utile", lo spauracchio che giustifica l'acquisto di armi per miliardi di dollari e la repressione del dissenso interno. Inoltre, un'economia iraniana aperta e dinamica sarebbe un concorrente diretto per i loro progetti di diversificazione economica, come Vision 2030. Il pericolo più profondo, però, sarebbe il "contagio democratico": un Iran prospero e libero sarebbe un modello molto più destabilizzante per le monarchie assolute di quanto non sia mai stata la caotica Primavera Araba.

Ma forse per nessuna nazione la trasformazione dell'Iran avrebbe conseguenze così profonde come per lo Stato di Israele, segnando la fine di un’era di conflitto esistenziale. In una prima fase, Israele vivrebbe la fine dell'incubo: la dottrina di sicurezza basata sulla "Dottrina Begin" di prevenzione nucleare vedrebbe la sua principale minaccia dissolversi; lo smantellamento dell'Asse della Resistenza offrirebbe un dividendo di pace senza precedenti. In una seconda fase, però, Israele affronterebbe la sfida di un rivale geopolitico.

L'antagonismo si trasformerebbe da scontro ideologico a competizione convenzionale. Un Iran razionale diventerebbe un potente sostenitore diplomatico della causa palestinese, cambiando gli equilibri all'ONU. A lungo termine, tuttavia, si aprirebbe la possibilità di riscoprire la logica della "dottrina della periferia" pre-1979: un'alleanza di potenze non-arabe – Iran, Israele, Turchia - contro minacce comuni, che potrebbe portare a una normalizzazione su una scala oggi inimmaginabile.

Se guardiamo alla storia millenaria dell'Iran, l’attuale regime teocratico appare sempre più come un’anomalia storica, un'impalcatura geriatrica e ideologica in rotta di collisione con la sua stessa società. La demografia iraniana è il motore di questo cambiamento che appare inevitabile. Con una popolazione dove la maggioranza ha meno di 40 anni, un livello di istruzione femminile tra i più alti del Medio Oriente e una penetrazione capillare dei social network che aggira la censura, si è creata una cittadinanza moderna, secolarizzata nelle aspirazioni e profondamente frustrata.

Questa società vibrante, le cui donne sono state in prima linea nelle più recenti ondate di protesta, è l'antitesi del sistema che la governa. Il suo potenziale, una volta liberato, non è una questione di "se", ma di "quando", e il suo scatenarsi innescherebbe un sisma geopolitico. Per Israele, significherebbe barattare una minaccia mortale con una complessa rivalità strategica. Per la Russia, la perdita di un alleato e la nascita di un concorrente energetico. Per le monarchie del Golfo, la fine di un nemico comodo e l'inizio di una sfida esistenziale. La trasformazione interna dell'Iran, spinta dal basso, riscriverebbe le regole del potere per tutti gli attori regionali, definendo il prossimo, imprevedibile capitolo della storia mediorientale.