Khalifa Haftar grande

Le recenti notizie provenienti dalla Libia dipingono un quadro allarmante che sembra sfuggire, o essere colpevolmente ignorato, nella sua reale portata dalla politica italiana, troppo spesso ossessionata dall'esclusiva lente dell'immigrazione clandestina. Mentre a Tripoli si riaccendono gli scontri tra milizie armate, segnale di una fragilità persistente e di una potenziale nuova spirale di violenza, il Generale Khalifa Haftar torna da Mosca dopo aver incassato un rinnovato sostegno militare e politico che potrebbe ridefinire gli equilibri sul terreno: carri armati, elicotteri d'attacco e altro materiale bellico pronti a rimpinguare le fila della sua armata.

L'instabilità interna a Tripoli e il rafforzamento militare di una delle fazioni chiave con il sostegno di Putin dovrebbero far suonare ben più di un campanello d'allarme a Roma. Invece, il dibattito pubblico e le azioni del governo di Giorgia Meloni sembrano concentrarsi quasi esclusivamente sulla gestione dei flussi migratori, come se la Libia fosse un semplice “rubinetto” da chiudere o regolare, e non un complesso teatro geopolitico alle porte di casa.

Questa visione miope è pericolosa innanzitutto perché ignora le cause profonde dell'instabilità, preferendo talvolta rifugiarsi nella nostalgia per l’era Gheddafi, più volte richiamata anche da Tajani nel corso degli ultimi anni, quando il dittatore libico piantava le sue tende a Villa Borghese e faceva affari con l’amico Berlusconi. Tale rimpianto per un presunto ordine passato impedisce di affrontare lucidamente la frammentazione attuale e la necessità di costruire un futuro diverso, non di sognare il ritorno a un passato autoritario insostenibile. Un simile approccio, inoltre, sottovaluta pesantemente le implicazioni per la sicurezza nazionale italiana ed europea.

Questa cecità strategica è resa ancora più stridente dal pacifismo peloso di Salvini, che a giorni alterni attacca l'Europa accusandola di voler fomentare la guerra contro Putin, mentre fa spallucce non accorgendosi o volutamente ignorando come l'Italia sia già di fatto accerchiata dall'influenza russa anche a Sud, proprio attraverso la Libia e la fascia sub-sahariana che va dal Chad al Burkina-Faso, lasciando in mano a Mosca proprio quei “rubinetti” che il governo italiano promette invano di chiudere.

L'immigrazione dalla Libia, e il suo conseguente carico di torture, prigioni lager e torturatori che viaggiano sugli aerei privati dei servizi segreti italiani, è una diretta conseguenza della crisi libica, non la sua radice. Concentrarsi unicamente sui sintomi, come i flussi migratori, significa rinunciare ad affrontare la malattia alla sua origine. Finché la Libia rimarrà un paese frammentato, privo di istituzioni statali realmente funzionanti e ostaggio di milizie e ingerenze straniere, continuerà inevitabilmente a essere un focolaio di instabilità e, di riflesso, un punto di partenza per coloro che cercano rifugio altrove.

Un Generale Haftar appoggiato politicamente e potenziato militarmente da Mosca, non rappresenta soltanto un problema interno libico. Configura, piuttosto, una crescente e preoccupante influenza russa nel Mediterraneo centrale, un'area di vitale interesse strategico per l'Italia e per l'intera Alleanza Atlantica. Permettere passivamente che la Libia si trasformi in una piattaforma per le ambizioni di Mosca, ora che finalmente è stata espulsa dalla Siria dopo il brutale appoggio militare al dittatore Assad, costituisce una negligenza strategica di proporzioni storiche, alimentata da una retorica interna contraddittoria e fuorviante.

Una politica estera così limitata erode progressivamente l'influenza diplomatica italiana nel dossier libico. Riducendo la questione libica alla mera necessità di una “guardia costiera rafforzata” per contenere le partenze, l'Italia perde credibilità e peso specifico come attore capace di promuovere una soluzione politica che sia inclusiva, equa e soprattutto duratura. È un vuoto che altri attori internazionali, con agende e interessi talvolta divergenti da quelli italiani ed europei, sono fin troppo pronti a riempire, marginalizzando ulteriormente il ruolo di Roma.

Infine, e tragicamente, una tale prospettiva rischia di alimentare ulteriormente la crisi umanitaria già in corso. Nuovi e più intensi scontri, unitamente a una Libia sempre più militarizzata e instabile, non possono che tradursi in maggiore sofferenza per la popolazione civile, in un aumento del numero di sfollati interni e, inevitabilmente, in un numero ancora maggiore di persone disperate disposte a rischiare la vita tentando la pericolosa traversata del Mediterraneo in condizioni disumane.

La visita di Haftar a Mosca e i nuovi, preoccupanti scontri a Tripoli non sono episodi isolati da leggere con superficialità, ma rappresentano tasselli interconnessi di un mosaico complesso. Questo scenario richiede una visione strategica ampia e una politica estera proattiva e multidimensionale, non meramente reattiva e ossessivamente focalizzata su un singolo aspetto. Continuare a vedere la Libia solo come un problema di immigrazione clandestina non è solo un approccio riduttivo; è un errore strategico che l'Italia potrebbe pagare a carissimo prezzo nel prossimo futuro.