Dopo il diluvio Trump, la sfida di nuove architetture globali
Istituzioni ed economia

Dall'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio 2025, la sua politica estera non è stata una semplice una brutale correzione di rotta, ma un vero e proprio sisma che sta ridisegnando con violenza le fondamenta dell'ordine globale. Le sue iniziative – dalla gestione cinica del dossier ucraino alle proposte radicali per Gaza, dalla clava dei dazi agitata con disinvoltura alla coreografia della sua attuale visita nel Golfo Persico – sono la manifestazione di una strategia che, dietro l'apparente incoerenza, persegue una rottura metodica. È il caos come strumento, la deliberata volontà di spalancare porte e finestre su un futuro incerto.
L'approccio dell'amministrazione Trump all'Ucraina è la quintessenza del suo pragmatismo sprezzante: l'esclusione di Kyiv dalla NATO e l'attribuzione della sua sicurezza ai soli europei non è un "piano pragmatico", è l'abbandono di un partner a un destino incerto, una svolta brutale rispetto al sostegno occidentale consolidato. Su Gaza, le proposte che emergono dalla sua amministrazione non sono semplici opzioni diplomatiche; idee come il trasferimento forzato di popolazioni sono soluzioni finali che rivelano una determinazione spietata a sradicare i vecchi paradigmi, incurante delle conseguenze umanitarie o del diritto internazionale.
La politica dei dazi è l'arma economica prediletta dal Presidente Trump. L'imposizione di tariffe generalizzate e dazi reciproci punitivi, difesa con la retorica dei benefici interni, scatena di fatto una guerra commerciale permanente, minando la stabilità economica globale e ricattando partner e avversari. È il protezionismo elevato a dogma, incurante delle interdipendenze dell'economia mondiale.
In queste ore, la sua visita ufficiale nel Golfo Persico – Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti – è la plastica rappresentazione della sua visione gerarchica delle alleanze. È un viaggio cruciale, sì, ma per ricalibrare l'impegno americano secondo i suoi termini, privilegiando interlocutori pronti a sottoscrivere i suoi disegni regionali. E in questa ridefinizione delle priorità mediorientali, il mancato scalo in Israele durante questo tour non è una svista logistica: è un deliberato e gelido schiaffo a Benjamin Netanyahu.
Le relazioni tra i due, un tempo sbandierate come idilliache, sono precipitate a un "punto basso", come ammesso persino da fonti israeliane, nonostante i tentativi di facciata del premier israeliano. Il rifiuto di Trump di assecondare Netanyahu sul mantenimento delle sanzioni alla Siria, mentre Washington dialoga con il nuovo regime di Damasco, è la prova lampante di questa ricalibratura. La "special relationship" con Israele non è più intoccabile; è ora soggetta alla brutale transazionalità trumpiana, un avvertimento a tutti gli alleati: nessuno è indispensabile.
Non illudiamoci: la politica estera di Trump non soffre di una mancanza di visione strategica. La sua è una strategia precisa: quella della bilateralizzazione estrema, del decisionismo assoluto che scavalca le consultazioni e della transazione come unica bussola – un approccio che si manifesta in esternazioni e azioni che ridefiniscono la prassi diplomatica, come il suo dichiarato interesse per l'annessione della Groenlandia o la quasi ridicola ridenominazione unilaterale del Golfo del Messico in Golfo d'America tramite ordine esecutivo. Questo modus operandi ha, con calcolo chirurgico, sparigliato tutte le carte, e gettato nel panico le cancellerie e le istituzioni multilaterali, viste come orpelli di un'epoca finita.
Il vento di Trump non è una brezza, è un uragano che sradica prassi e certezze. La "rivoluzione" trumpiana non è la serena rotazione di un pianeta attorno a una nuova stella. È l'impatto di un meteorite che ha frantumato le vecchie costellazioni geostrategiche, disseminando detriti e incertezza. Ma proprio come le grandi collisioni cosmiche possono, nel tempo, fornire il materiale grezzo per la nascita di nuovi mondi, così questo sconvolgimento epocale ci pone di fronte a un bivio cruciale.
Ciò che emerge da questo caos programmato è la cruda necessità per gli altri attori globali di reagire, di ripensare radicalmente la propria autonomia strategica, la propria sicurezza, la propria capacità di innovazione. L'Europa, in primis, è costretta a guardare in faccia la propria vulnerabilità e a decidere se e come diventare un polo geopolitico autonomo, anziché un satellite delle mutevoli strategie americane.
Siamo all'inizio di questa nuova era, ed è imperativo non subirla passivamente. Le macerie lasciate dal sisma trumpiano non devono necessariamente trasformarsi solo in un campo di battaglia per conflitti aperti o in un mercato cinico dove le alleanze sono dettate unicamente dalla legge del più forte. Al contrario, questo è il momento, oggi stesso, di iniziare a immaginare e costruire attivamente modi radicalmente nuovi di concepire le relazioni internazionali. È una sfida titanica, ma non inedita.
Dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, di fronte a un mondo in rovina, statisti visionari osarono pensare l'impensabile, gettando i semi di quella che sarebbe diventata l'integrazione europea – un processo innovativo, un tempo inimmaginabile, per "stare insieme" in modo diverso e superare secoli di inimicizia. Oggi, di fronte al caos trumpiano, c’è di nuovo bisogno di una simile audacia intellettuale e politica, per forgiare dal disordine non la sottomissione alla forza bruta, ma processi inediti di cooperazione e coesistenza, capaci di rispondere alle sfide di un pianeta interconnesso e vulnerabile.
Come forse direbbero Ernesto Rossi e Altiero Spinelli: le porte e le finestre sono state divelte, invece di lamentarsi del vento gelido è tempo di progettare nuove architetture per un futuro condiviso.
