trump cappellino grande

Cento giorni sono passati dal ritorno di Donald J. Trump alla Casa Bianca. Cento giorni che non hanno mancato di essere esattamente ciò che ci aspettavamo; o forse hanno superato ogni piú fosca previsione. Questione di prospettiva e di tolleranza al déjà vu politico.

Ricordate le promesse? Un'economia ruggente, l'America di nuovo grande, accordi fantastici. Ebbene, iniziamo dalle basi, dalla colazione dell'americano medio: le uova. Chi avrebbe mai immaginato che uno degli indicatori più tangibili della nuova era sarebbero state proprio loro? Oggi, preparare una frittata negli Stati Uniti richiede quasi l'accensione di un mutuo. Oggi, un singolo uovo contende il prezzo con un microchip di ultima generazione. Ma non temete, è sicuramente parte di un piano geniale per incentivare diete a basso contenuto di colesterolo.

O forse, piú semplicemente, l'inflazione, quella bestia mitologica che doveva essere domata con un tweet, e che invece ha deciso di fare un giro prolungato nel carrello della spesa. È l'economia della grandezza, e tu non puoi far nulla se non ammirarla… e pagare.

E che dire dei dazi? Ah, i dazi. I dazi sono tornati a bussare alle nostre porte come un lontano parente con la passione per le visite inopportune e le richieste imbarazzanti. Annunciati con la consueta fanfara via social media, questi dazi promettono di proteggere l'industria nazionale americana. Quale settore debbano proteggere resta un mistero avvolto in una cortina fumogena di dichiarazioni contraddittorie, forse risolto con un lancio di monetina particolarmente drammatico nella Situation Room. Il risultato immediato? Un'ulteriore spintarella all'inflazione e tante sopracciglia alzate tra gli alleati, che ormai rispondono alle chiamate da Washington con l'entusiasmo di chi deve andare dal dentista. Ma è il prezzo da pagare per essere rispettati di nuovo, no?

Ma la perla di questi primi cento giorni, la mossa strategica che, senza dubbio, terrà occupati i futuri esegeti della storia politica americana, è l'improvvisa apparizione del fantomatico Golfo d'America. Che sia un lapsus calami, la ridenominazione del Golfo del Messico a seguito di una qualche brillante transazione immobiliare, o una teoria geopolitica talmente all'avanguardia da sfuggire alla comprensione dei più, resta un mistero. Potrebbe trattarsi di una inedita zona marittima interdetta a chiunque non possieda uno yacht con bandiera a stelle e strisce o è semplicemente una metafora colorita per descrivere il caos che regna sovrano nella politica estera americana? Qualunque cosa sia, suona importante. E questo, si sa, è ciò che conta.

Nel frattempo, la politica americana continua i suoi eleganti avvitamenti. Ogni giorno porta con sé una piroetta politica inedita, una promessa smentita nel giro di un tweet, un licenziamento lapidario via social media, un alleato osannato al mattino e vituperato alla sera, il tutto condensato nello spazio di un paio di messaggi. È un balletto caotico che lascia gli osservatori internazionali tra il divertito e il terrorizzato. Ma almeno non ci si annoia. È il "Trump Show", seconda stagione, con lo stesso protagonista, lo stesso copione imprevedibile e, a quanto pare, gli stessi risultati tragicomici.

Quindi, dopo cento giorni, qual è il bilancio? Dipende. Se vi aspettavate stabilità, coerenza e prezzi delle uova ragionevoli, forse siete rimasti delusi. Se invece eravate pronti per un altro giro sull'ottovolante politico più imprevedibile del pianeta, beh, allacciate le cinture. La grandezza è tornata, e costa cara, anche a colazione.