Meloni braccio grande 

Lo scorso Martedì Ernesto Galli della Loggia ha avviato, con un editoriale sul Corriere della Sera, un dibattito sull'assenza, in Italia, di una classe dirigente conservatrice. Si tratta di un fenomeno che ha origini remote (al più tardi nell’ Italia post-risorgimentale) analizzando il quale è molto semplice scambiare le cause con gli effetti e viceversa – spesso le une e gli altri sono in realtà un indiscernibile unicum: il fascismo, ad esempio, da un lato fu l'effetto dell'incapacità dell'evanescente conservatorismo italiano, tutt’altro che “churchilliano”, di elaborare una risposta controrivoluzionaria alla minaccia bolscevica, dall'altro ipotecò per sempre parte dello spazio politico-ideologico e per certi versi anche culturale che in un sistema “normale” sarebbe più o meno puramente conservatore.

Il grande caos primorepubblicano, a sua volta, non è classificabile perentoriamente come causa o effetto. La Dc post-degasperiana, la cui destra fu il domicilio di fior di conservatori, fu ostile all'elaborazione ideologica o anche solo programmatica (cos’altro si può rintracciare, oltre il Codice di Camaldoli?), essendo piuttosto incline a una forma di pragmatismo poi degenerata nella gestione presentista e clientelare del potere e approdata, poco prima della scomparsa, nel “nientismo” di Arnaldo Forlani.

Com'è arcinoto Indro Montanelli, il conservatore quintessenziale, votò Dc turandosi il naso solo in funzione anticomunista, mentre altri borghesi borghesissimi come Giorgio Ambrosoli, in assenza di una adeguata sponda politico-partitica, trovarono nella Chiesa cattolica il loro unico riferimento. Dal canto suo, il Msi – custode di un conservatorismo molto ambiguo o comunque sui generis, come ambiguo o sui generis quando non pagliaccesco fu il conservatorismo del fascismo-regime – si perse in elucubrazioni stravaganti, perfino nell'esoterismo, tra Evola Pound Lovecraft Tolkien.

La novità proposta da Della Loggia, a quanto pare, consiste nell'assegnare, in quella fase, quantomeno una corresponsabilità alla “sinistra”: l'atmosfera totalizzante, chiusa e mefitica che fece calare nella dimensione della cultura avrebbe lasciato forzosamente fuori dalla porta l'antitotalitarismo e il conservatorismo “buono” (Solženicyn, Del Noce etc.) e dunque costretto la classe dirigente italiana o ad abbeverarsi alle “fonti rosse” o all’orfanitudine partitica e culturale o all’autoemarginazione nell’area missina, area a sua volta “incattivita” proprio in quanto emarginata, formalmente dalla conventio ad excludendum (che comunque gravò anche sul Pci…) e sostanzialmente criminalizzata anche in qualunque dimensione extra-politica – un po’ come quando in classe, anziché includere un ragazzino un po’ aggressivo ed “eccentrico”, lo si emargina così alimentando la sua aggressività e il suo eccentricismo.

È senz'altro vero che la voracità e la rigidità ideologica e perfino psicologica quando non il vero e proprio breznevismo della “sinistra” (si semplifica) dal secondo dopoguerra agli '80 soffocarono l'apparato culturale italiano (l'aneddotica è infinita: il commento sprezzante di Calvino su Orwell, le peripezie editoriali affrontate da Il Gattopardo etc.); ma, d’altro canto, non si può rimproverare a una parte di aver fatto troppo bene il proprio lavoro e di essersi astenuta dal fare il lavoro dell'altra. Se l'altra parte – nella forzata semplificazione bipolare alla base di queste riflessioni – faticava a reggere il confronto la responsabilità era unicamente sua. C'è un bel carteggio tra Indro Montanelli e Michele Serra nel quale i due, all’alba della seconda repubblica, affrontano il tema; tra le tante altre cose, Montanelli ricorda che quando Longanesi fondò «Il Borghese» il lettore omonimo bisognava inventarselo, forgiarlo ex novo (missione fallita). In Italia non c'è mai stata una borghesia nel senso weberiano del termine, c'è sempre stata una “borghesia” statalista, (non individualista, ma) egoista e familista, l’unica “ideologia” a cui è fedele è quella dell’opportunismo trasformista. E questo è a un tempo e dialetticamente – si diceva – causa ed effetto dell'assenza di una classe dirigente conservatrice.

L'occasionissima per farne emergere una, come ha scritto l’altro ieri Guido Vitiello su Il Foglio, si presentò ben trent'anni fa, quando l’intera galassia marxista boccheggiava sotto le macerie del muro e la furia manipulitista schiacciava il tasto “reset”. Il primissimo Berlusconi sembrava in effetti voler costruire un immaginario conservatore… ma poi virò bruscamente verso più semplici e semplicisti lidi – è ragionevole credere che Berlusconi abbia sempre considerato la cultura un elemento ornamentale e, dopo un blandissimo tentativo iniziale, un immaginario politico-ideologico scelse di forgiarlo con il Gabibbo e Mario Giordano piuttosto che con Marcello Pera e Antonio Martino, producendo inintenzionalmente prima il grillismo e poi il leghismo retequattrista.

Vitiello cita anche la parabola di Gianfranco Fini, «provò davvero a mettere in soffitta i busti del Duce, e la soffitta gli crollò sulla testa», probabilmente era anche troppo mediocre e vanitoso per essere all’altezza di un compito quale quello di una ragionata rifondazione della destra.

Che la si guardi da una prospettiva marxiana o weberiana, poi, quella economica è una componente fondamentale dell’identità politico-ideologica di una fazione. La lunga “vacatio” proprio al Ministero dell’Economia che poco più di due anni fa mise in seria difficoltà Meloni durante la formazione del suo esecutivo non è stata che la più paradigmatica conseguenza del pluridecennale e sterile bighellonare delle destre italiane. Il divertissement stravagante e autocompiaciuto dei “campi Hobbit” della destra tardo-missina prima e il bassissimo (popolano e, nell’ultimo decennio, antintellettualista e cattivista) intrattenimento della destra tele-berlusconiana poi hanno fatto giungere gli eredi di ambedue le tradizioni agli appuntamenti con la storia con parecchio affanno ideologico e un capitale umano inconsistente e a tratti anche impresentabile.

Nel mondo, nel frattempo, Margaret Thatcher e i suoi hanno mandato in pensione Keynes con von Hayek, Tony Blair si è inventato la terza via, il nuovo millennio venne inaugurato con la moneta unica (e dunque il perfezionamento dell’impalcatura ordoliberista dell’Ue) e la crisi delle dot-com, seguirono i subprime e i debiti sovrani, sino a giungere alla pandemia e al chimerico debito comune – in tutto ciò nei governi Berlusconi a Palazzo delle Finanze andarono due economisti di estrazione socialista (Tremonti e, per poco più di sette mesi, Siniscalco) e adesso c’è Giancarlo Giorgetti, figura di spicco del leghismo pre-salviniano.

A tal proposito si noti a margine che dalle nostre parti, quando i cieli si sono fatti temporaleschi, i conti hanno dovuto sempre sistemarli i tecnici – e questo rivela, nella dimensione economico-finanziaria, non tanto e solo l’inadeguatezza della destra ma dell’intero sistema Italia, sia per così dire “spiritualmente” (sarebbe così infondato ipotizzare che l’identità profonda degli italiani – e di altri “mediterranei” – sia più latino-americana che euroatlantica e che sia solamente il duplice vincolo esterno a tenerci sui binari giusti?) sia in termini di sistema politico-istituzionale (quant’è deresponsabilizzante, per le forze politiche, il semipresidenzialismo intermittente di fatto in vigore dai primi ’90? I partiti passeggiano sull’orlo del baratro della bancarotta tanto poi interviene il Quirinale patrocinando un esecutivo di adulti che s’incarica di mettere tutto a posto…).

Tornando a noi, e a proposito di tecnici, non è troppo azzardato ritenere che se il nostro spettro politico-partitico fosse stato meno anomalo, magari Ciampi e i Ciampi boys – tra cui Mario Draghi – avrebbero trovato se non una casa quantomeno un’area prediletta, nel conservatorismo; invece il primo dovette accasarsi in una meravigliosa ma un po’ anacronistica forma di patriottismo risorgimentale e i secondi si sono perlopiù tenuti alla larga dalla politique politicienne prediligendo l’altissima amministrazione, salvo qualche fuga occasionale e comunque sempre in vesti “impolitiche” (Padoa-Schioppa, ad esempio, fu Ministro dell’Economia… ma nel governo Prodi II).

Galli della Loggia sottolinea, nel suo editoriale, una cosa parecchio condivisibile: la classe dirigente è una (si identifica così in base alla posizione professionale), la fede politico-ideologica giunge “in subordine”. La classe dirigente d’indole conservatrice finisce dunque per optare per “l’agnosticismo” – nella dimensione pubblica, beninteso – perché la sponda per cui potrebbe potenzialmente simpatizzare o nella quale potrebbe addirittura militare, ideologicamente nebulosa com’è e piena di… freaks com’è, come fa notare anche Vitiello, si trova sostanzialmente in Via dei Matti numero zero, una casa tutt’altro che carina senza soffitto e senza cucina, in alcune stanze stazionano economisti di terz’ordine nostalgici della monetizzazione del debito e delle svalutazioni competitive, in altre Donzelli Lollobrigida e altri cognati d’Italia, in corridoio ci si può perfino imbattere in generali pamphlettisti insopportabilmente protervi e un po’ macchiettistici, e allora è meglio girare al largo.

Se oggi Meloni si ritrova in un ambiente siffatto, se non è riuscita a pescare – si diceva – un economista che fosse uno nel lago asciutto degli economisti passabili e dichiaratamente conservatori, se alla Cultura è stato nominato prima un wannabe fantozziano e adesso un barocco e permalosissimo giornalista lampantemente privo di quid (certo, non che i predecessori, in quel ruolo, ce l’abbiamo sempre avuto…), se i vari Giubilei insistono col solito rosario di nomi (Prezzolini, Longanesi etc.) che non testimonia null'altro che una freudiana invidia del pantheon (immancabilmente “di sinistra”) e l’ansia di calare costruttivisticamente dall’alto una contro-egemonia, ecco, un po' è a causa di fattori strutturali un po' è perché non c’è mai stata la voglia di costruire qualcosa di serio e duraturo, ma non è certo colpa di Gramsci.