primarie Pd grande

La vittoria di Elly Schlein alle primarie del PD è stata tanto imprevista nell’esito, quanto scontata nelle motivazioni. La sua candidatura e la sua elezione, per tutto quello che l’ha preceduta, e per il curriculum della neo-segretaria, è stato il rinnegamento non solo del PD cosiddetto renziano ma del PD in quanto tale, come partito del compromesso riformista con la modernità.

Il voto delle primarie non è stato affatto rappresentativo di quel che pensano o vogliono quei cinque milioni e mezzo di italiani che pochi mesi fa votarono per il Partito Democratico alle elezioni politiche, né, tantomeno, quegli undici milioni che nove anni fa alle europee del 2014 portarono il partito renziano sopra il 40%.

È al contrario rappresentativo della forza di mobilitazione di quelli che considerano il PD in sé – il PD del Lingotto, non quello della Leopolda – un “partito sbagliato” e che pensano di riportare la sinistra sulla retta via, liberandola dalla servitù ideologica e dalla compromissione politica con il pensiero liberale.

Infatti mai così pochi sono stati, nella storia del PD, i votanti alle primarie e i voti per il segretario eletto e mai così tanti e tanto rilevanti gli apporti esterni al partito a questo risultato formalmente di partito.

Per Elly Schlein hanno votato poco più di mezzo milione di elettori, moltissimi dei quali non solo non erano iscritti al PD, ma neppure, prima della sua candidatura, elettori del PD. Il che peraltro non vuole affatto dire che lo zoccolo duro degli elettori del PD sceglierà subito ed in massa un’altra collocazione (gli elettorati sono mutevoli, prima che mobili e cambiano facilmente idea, prima che posizione). Significa però che quanto in Francia è avvenuto dal di fuori – con Melenchon che si è mangiato il partito socialista – in Italia potrebbe avvenire, per così dire, dal di dentro: per automutazione.

Se dunque è presto per fare previsioni su dove finirà il PD di Schlein, se in un perimetro minoritario o in social-populismo potenzialmente maggioritario, in alleanza e compagnia del clone post-grillino, ci sono pochi dubbi su quella che sarà la direzione della sua proposta e esperienza politica. Non bisogna indovinarla, né decifrarla. L’ha dichiarata con chiarezza: contraria a quella percorsa dal PD dalla sua fondazione, uguale a quella seguita da chi dal PD si è allontanato.

Da questo punto di vista non c’è da temere, né da sperare che i vecchi mandarini democratici (da Franceschini a Zingaretti, da Bettini a Orlando) che si sono schierati dalla sua parte la sappiano trattenere lungo un binario in qualche modo segnato. Non è certo il loro afflato nuovistico ad avere consentito a Schlein di ribaltare col voto popolare il risultato deludente del voto dei circoli, in cui il loro sostegno si era rivelato invero marginale.

Al netto delle simpatie o antipatie suscitate dai vari navigatori riformisti che in questi anni hanno fatto del PD, in termini di fatto e di immagine, il partito dell’establishment, la verità è che non c’è critica rivolta al “partito di Renzi” che non possa essere rivolta al “partito di Veltroni”.

Peraltro questo riflusso verso un passato che non può tornare, ma può impedire di guardare avanti, questa retorica da “vera sinistra” e questo anti-capitalismo new age non è un fenomeno solo italiano. Si penso al fenomeno Corbyn, si pensi a quanto Sanders continua a condizionare i democratici americani, si pensi a Siryza e a Podemos, si pensi a come sono finiti i socialisti francesi e a come avrebbero potuto finire pure quelli tedeschi se i democristiani non si fossero auto-incaprettati nella successione di Angela Merkel.

Tra le tante eccezioni italiane, quella di una sinistra che insegue immaginifici ritorni al futuro non è neppure delle più eccezionali.