Trump 1 grande

Le immagini di Capitol Hill e lo spettacolo dell’assalto delle “truppe” del presidente uscente al Parlamento che avrebbe dovuto decretare la vittoria del suo successore sono tanto incredibili, quanto in fondo coerenti con la parabola della presidenza trumpiana. Trump non ha mai riconosciuto la legittimità dei suoi avversari e non riconosce la legalità dell’esito delle elezioni. L’America anti-trumpiana ha raccontato il suo successo come un “errore di sistema” della democrazia statunitense e il frutto di un complotto straniero orchestrato dai nemici dell’America.

Chi dice di pensare che Trump sia la causa, e non uno degli effetti (e il maggiore beneficiario) di questa spaccatura verticale dell’unità politica della nazione americana, dovrebbe sperare che tolta la causa, venga meno l’effetto, che espulso e cancellato il bug del software politico-istituzionale, la democrazia americana tornerà al business as usual. Ma non sembra esserci in giro troppa gente che davvero creda a questa speranza, anche perché per metà dell’America il 4 novembre non è affatto stato “un 25 aprile”, ma la data dell’usurpazione dell’unico potere sentito come accettabile e quindi come legittimo.

Poco importa che questo potere fosse esercitato dal presidente più stupefacentemente “anti-americano” della storia, più refrattario all’omaggio ai valori e alla retorica democratica, più invischiato in relazioni internazionali pericolose oltre ogni limite, più insensibile a qualunque canone di coerenza e di rispettabilità. Ma se Trump è stato lo specchio e non solo il pifferaio di un’America in marcia contro l’altra America, i teppisti di Capitol Hill non sono lo specchio del trumpismo, che è (purtroppo) qualcosa di molto più profondo e molto più vero e con cui, anche dopo Trump, l’America spaccata a metà dovrà continuare a fare i conti.

Guardando le convulsioni della democrazia americana da questa parte dell’oceano, dalla riva europea dell’Atlantico, non dovremmo sentirci troppo al sicuro, ma piuttosto riconoscere che i sintomi della stessa malattia, i segni della stessa disunità affliggono le democrazie europee, che peraltro possono contare su una società meno articolata, su una economia meno ricca e su istituzioni meno stabili di quelle della secolare democrazia Usa.

Come nell’America trumpiana e post trumpiana, anche in Europa la questione etnico-razziale e le dinamiche demografiche e migratorie rappresentano la determinante fondamentale del processo politico democratico. Se in America questo avviene invertendo per la prima volta nella storia il rapporto di forza tra i cittadini wasp, destinati a breve a diventare minoranza, e il resto della popolazione, in Europa il fenomeno si presenta nella forma di un invecchiamento generale della popolazione non surrogabile altrimenti che con l’inclusione (largamente rifiutata) di quote crescenti di immigrati stranieri. Insomma sia il sovranismo americano, sia quello europeo rappresentano una forma di “odio di sé” e di rifiuto per quello che America e Europa sono demograficamente, cioè materialmente, diventate.

Inoltre, come nell’America, anche nell’Europa del terzo millennio il processo democratico, cioè l’organizzazione del consenso e il “sistema di produzione” delle idee politiche, è stato in larga parte disintermediato e deistituzionalizzato. Il mutamento dei paradigmi tecnologici ha invertito il rapporto di forza tra politica e propaganda e in senso lato “comunicazione”, dunque il consenso si forma, si organizza e si veicola su piattaforme essenzialmente commerciali, da cui non ha neppure senso esigere il rigore della stampa e la trasparenza delle istituzioni politiche. Oggi il mondo democratico guarda (sbagliando) con sollievo alla censura che i social network principali riservano a Trump, ma non sembra vedere dietro questa scelta affacciarsi l’orrore di un possibile rapporto tra verità di Stato e social network, come se davvero fosse auspicabile affidare la bonifica del discorso pubblico alla censura delle cosiddette fake news da parte dei ceo delle multinazionali digitali.

Infine, in America come in Europa, almeno fino a che i ricambi generazionali non ricostituiranno una umanità “uguale” in termini di possibilità e di prestazioni cognitive, la democrazia è minacciata dalla crescente distanza tra chi sta dentro e chi sta fuori l’economia e la società della conoscenza; una distanza che crea spaccature non solo economiche, ma civili e culturali e nutre non solo sentimenti di invidia sociale, di vera e propria estraneità antropologica. E anche su questo piano l’Europa, per il suo minore dinamismo, non può certo dire di essere messa meglio dell’America.

Insomma, non ci sono troppi segni che ci consentano di guardare con fiducia all’era post-trumpiana, posto che ieri sia davvero iniziata, né a contare troppo sulle magnifiche sorti e progressive degli stati “disuniti” d’America e d’Europa e della loro entropia democratica, mentre sempre più minacciosa avanza l’antidemocrazia cinese, con il mito della sua superiore efficienza.

@carmelopalma