Europa e trattati: ripartiamo dal Giappone
Istituzioni ed economia
Due settimane fa la Commissione UE ha annunciato il raggiungimento di un accordo quadro col Giappone che potrà portare ad un vero e proprio Accordo di libero scambio e di partenariato strategico. Un negoziato partito con grande prudenza (e un po' di diffidenza, come dissi intervenendo in aula al Parlamento Europeo l'11 giugno 2011).
Con tutti i limiti del progetto europeo e dei Trattati che regolano quella grande incompiuta che è l'Unione Europea, dopo la sospensione del TTIP per colpa degli USA e l'approvazione dell'accordo con il Canada (CETA), ecco un'altra grande iniziativa per la crescita della nostra economia. Il commercio internazionale, unitamente al completamento del mercato interno e alla disciplina fiscale dell'economia digitale, è un grande strumento di crescita, ben maggiore delle politiche nazionaliste, protezioniste, a volte persino autarchiche, che i sostenitori, a volte inconsapevoli, della "decrescita felice", dell'economia di prossimità, vorrebbero propinarci.
Ci son voluti 5 anni perché la volontà politica di un accordo col Giappone potesse trovare un quadro di principi condiviso, segno della prudenza con cui le istituzioni europee si sono mosse e della consapevolezza che una società chiusa al suo interno, come quella giapponese, presenta "difficoltà d'ingresso" (soprattutto per barriere non tariffarie) che vanno tenute in debito conto da chi ha regole commerciali molto aperte come l'UE. Oggi più che mai i requisiti di "reciprocità" e "precauzione", devono essere posti alla base di ogni negoziato commerciale.
Quella degli accordi bilaterali e dei partenariati strategici, in un periodo di crisi (ahinoi!) del multilateralismo, a seguito del fallimento del Doha round del WTO, è l'unica strada per riaffermare politiche economiche di crescita unite a un impegno per la sicurezza e la difesa dei diritti umani, la cui efficacia è già stata dimostrata dagli accordi con il Canada, il Vietnam, la Corea del Sud e la Colombia.
Occorre continuare su questa strada, riprendendo l'iniziativa per riportare gli USA al tavolo del negoziato per il TTIP e così pure coi Paesi latinoamericani del MERCOSUR. I vantaggi raggiungibili con una politica commerciale incalzante, pur non risolvendo tutti i problemi, come nel caso del CETA, superano di gran lunga i dubbi e le perplessità di chi vorrebbe mantenere tutti i benefici raggiunti in secoli di egemonia occidentale ed europea senza però "pagar dazio" a chi è salito sul palcoscenico mondiale, da almeno 30 anni, e oggi si impone come attore globale al pari di noi che abbiamo tutto l'interesse a contrastarne l'egemonia sviluppando accordi quanto meno con le grandi democrazie del mondo.
Se si potessero chiudere in 5 anni, dopo Canada, Corea del Sud e Colombia, anche USA, Paesi latinoamericani del MERCOSUR e Giappone, si sarebbe creato un mercato aperto di quasi 1,5 miliardi di persone, con dentro le più grandi democrazie del mondo. Le poche che resterebbero fuori vi entrerebbero sicuramente nel giro di pochi anni. E insieme potrebbero avviare una politica congiunta verso l'Africa (di cui l'UE è già il primo contribuente netto in politiche di cooperazione e sviluppo), grande problema e straordinaria opportunità del 21° secolo, che non può essere abbandonata nelle braccia di Cina e India.
Altro che terrore per l'olio tunisino, i pomodori marocchini o gli agrumi egiziani! C'è qualcuno che crede che la crescita e l'occupazione derivino da sussidi e spesa pubblica "a go go". Poi, invece, c'è chi ritiene che prima di tutto si debba allargare la domanda per sviluppare in modo regolato l'offerta.
Questo liberalismo pragmatico e regolato è l'unica risposta "forte" al liberismo finanziario senza regole che ha generato la crisi, distruggendo l'economia reale. Le uniche alternative a questa alternativa (scusi il lettore il gioco di parole) sarebbero il vecchio modello socialista-statalista o quello protezionista-nazionalista. Ma il confine tra queste due ultime (non) soluzioni si confonde nel comune orizzonte populista e decadente dal cui affermarsi l'Europa avrebbe tutto da perdere.