Trump Bannon

Donald Trump non ha fatto in tempo a insediarsi che gli spifferi della Casa Bianca si sono fatti vorticosi, fino a instaurare un regime di fuga di notizie da fare invidia alla Procura di Palermo. Giornalisti e analisti americani, presi alla sprovvista, hanno da subito cercato la chiave nel classico whistleblowing. La disfunzione come indice del dissenso interno: un sabotaggio, insomma, da disobbedienza civile. La “spiata” come difesa dell’istituzione presidenziale dagli abusi del suo occupante pro tempore.

All'occhio navigato dell’osservatore italiano – osservatore suo malgrado di vent'anni di incontrastato protagonismo da parte della magistratura e della sua insofferenza nei confronti della castrante separazione dei poteri – il sospetto va subito in senso opposto: la fuga di notizie, altrettanto pilotata, come strumento di comunicazione politica, come modo di affermare la propria legittimazione e la propria missione, attraverso un legame diretto, immediato e anti-procedurale, con la comunità spirituale di cui si rivendica la rappresentanza.

Nulla di più efficace del trafugato verbatim, del contenuto riservato di telefonate solitamente secretate con gli omologhi capi di stato, per mostrare che il Commander in Chief parla in privato come in pubblico, e dice agli stranieri quello che gli americani nel loro intimo pensano sulla legittima difesa dello Stato nella lotta all'immigrazione clandestina e allo jihadismo.

Niente di meglio per mettere in chiaro fin da subito che Trump non si lascerà normalizzare dall’esercizio del potere e dai formalismi della ragione di stato, e men che meno dal galateo diplomatico. Esiste l’evidente tentativo da parte della squadra di Trump di trasformare una vittoria strappata un po' a sorpresa in un’ulteriore fonte di legittimazione.

Per il neoeletto capo dell’esecutivo il dilemma da affrontare non è dissimile da quello della magistratura, tutta auto-nominata, italiana: riuscire ex-post a dare un’interpretazione politica di un mandato inaspettato. È un’operazione leninistica. Le “verità alternative” sfornate dalla Casa Bianca non concorrono, né confliggono con quelle dell’informazione ufficiale; istituiscono un paradigma della realtà, e non solo dell’interpretazione di essa, del tutto indipendente da quello dei media tradizionali, rigettato perché espressione del cosiddetto establishment, cioè del vecchio potere soppiantato dal nuovo potere. Ogni indiscrezione, anche le più apparentemente imbarazzanti, serve a consolidarne l’immagine e il significato storico.

Il rischio di passare – lui e la sua squadra – per impreparati o incompetenti o naif, non è per Trump un danno collaterale, ma è parte del piano di lavoro. Si segnala così la volontà di restare fedeli alla volontà popolare, determinati a interpretare lealmente lo spirito “ingenuo” e quindi autentico del mandato politico ricevuto.

Al di là di tutte le evidenti differenze, ad accomunare il neo eletto Presidente e la magistratura italiana è l'ascesa al potere fortuita, dovuta ai demeriti altrui e alla necessità di riempire il vuoto di potere successivo alla caduta di un establishment. Entrambi interpretano il proprio potere come doppiamente legittimo, e affrancato da vincoli procedurali. Entrambi ritengono di dover rendere conto del proprio operato solo e direttamente al popolo tradito dai predecessori ed esposto, per il futuro, ad analoghi tradimenti.

Anche la vulgata - alimentata dalla compulsione twitteriana dallo stesso Trump - che vorrebbe il Presidente stizzito dalla sconfitta nel voto popolare è poco credibile. È pura diversione. Trump è una perfetta distrazione (un po’ come lo è stato il grossolanamente ruspante Di Pietro agli inizi di Mani Pulite) per distogliere l'attenzione da chi molto più sottilmente sta intellettualizzando la partita. È una perfetta copertura per l'interpretazione leninistica del potere esplicitamente rivendicata dallo stratega capo, Steve Bannon, in molteplici interviste pre-elettorali: “Il non-senso è uno strumento organizzativo più efficace della verità".

Il mandato politico si interpreta pienamente solo se indisturbati da checks and balances. Il non-senso, spiegava sempre Bannon, è un metodo: "Credere nel non-senso è la dimostrazione di una realtà infalsificabile. È una uniforme politica. E chi ha un'uniforme, ha un esercito".

Le procure italiane, senza rivendicare il mistero della fede della propria infallibilità, non hanno in genere mai esitato a rivendicare il diritto all’impunità, anche la più irrazionale, rifiutando ogni pure ragionevole ipotesi di auto-governo meritocratico, che punisse gli atti di più grossolana e palese incompetenza. Proprio perché l'organizzazione, e la lealtà dei suoi membri, è più importante non solo della giustizia, ma anche della verità.

Un ordine simbolico che oggi ritroviamo nel M5S, che non a caso può essere ritenuto la traduzione parlamentare del cosiddetto governo dei magistrati (dell’accusa), del sospetto anticamera della verità, dell’impossibile innocenza della “Casta” e di tutti i suoi membri, dal primo all’ultimo, senza differenze.

Se non fosse stato abbastanza chiaro l’intento dei primi executive orders sul bando ai musulmani, scritti in modo provocatoriamente approssimativo, la Casa Bianca ha ricalcato il messaggio con ripetute uscite di un fedelissimo di Steve Bannon, il Senior Advisor Stephen Miller, che gira per le TV a rivendicare la letterale infallibilità di Trump.

Quello che conta è trasformare l’attimo in occasione storica, che l'operatore leninista è obbligato a cogliere. Nel caso di Trump e dei suoi, come spiegava bene prima delle elezioni Michael Anton, oggi advisor di Trump, la necessità di riconoscere l’elezione del 2016 come l’ultima spiaggia per fermare la storia, che sul lungo termine, con il crescente voto dei latinos, regalerà demograficamente le elezioni ai Democratici modello Obama coalition.

Quando si tratta non solo di fare ma anche di fermare la storia, il fine giustifica il mezzo.