Mural Trump Putin

È ancora troppo presto per stabilire se l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca rivoluzionerà l’assetto geopolitico dell’Europa Orientale, ma i timori, sollevati in primis dai Paesi Baltici, appaiono più che fondati in quanto non si basano su speculazioni teoriche ma su dichiarazioni dello stesso tycoon in campagna elettorale.

Nei mesi scorsi le affermazioni di Trump sulla difesa dei Baltici da una potenziale aggressione russa, unitamente alla dichiarata simpatia del magnate americano per Vladimir Putin, hanno allarmato non poco i governi di Estonia, Lettonia e Lituania. Il futuro presidente, mettendo in discussione l’art 5, quello che assicura mutua assistenza da parte di tutti gli stati membri della NATO in caso di attacco a uno di essi, aveva infatti sostenuto che la difesa dei Paesi Baltici sarebbe avvenuta solo in caso di un’adeguata partecipazione di questi ultimi alle spese militari.

L’uscita, ritenuta una gaffe imperdonabile anche dagli stessi vertici NATO, aveva provocato l’immediata risposta dell’organizzazione che in un tweet aveva riassicurato gli stati membri sottolineando che l’Alleanza Atlantica non avrebbe mai abdicato a quanto stabilito nel suo statuto.

In una campagna elettorale, contraddistinta, in assenza di un impianto ideologico coerente, da rabbia e spettacolo, in cui Trump ha sostenuto tutto e il contrario di tutto, è difficile sapere se le sue esternazioni sul ruolo della NATO fossero legate a considerazioni di natura economico-finanziaria, politico-strategica o fossero solo una delle innumerevoli provocazioni per catturare il voto di pancia dell’America che detesta la political correctness.

In Lettonia, all’indomani della sua vittoria, le parole di Trump sono state interpretate come il logico corollario di un Presidente, forse il primo nella storia degli Stati Uniti, smaccatamente filorusso, secondo alcuni addirittura un Manchurian Candidate in combutta con il Cremlino. Un tweet apparso sul sito Latvian History riassume perfettamente il timore del popolo lettone rispetto al nuovo corso americano.

“In 25 anni di storia della nuova Lettonia indipendente la Russia ha spesso provato a influenzare la formazione di governi lettoni più vicini agli interessi russi, senza riuscirci. Adesso sembra che invece ci sia riuscita addirittura con l’elezione alla Casa Bianca.”

Anche l’ex presidente Vaira Vīķe-Freiberga non le ha mandate a dire, paragonando Trump al maiale Napoleone de La fattoria degli animali di Orwell che si considerava più uguale degli altri animali di fronte alla legge. Il primo ministro Māris Kučinskis ha cercato invece di placare gli animi dichiarando che la politica degli Stati Uniti non cambierà di molto, visto che un solo uomo non può mutare radicalmente ciò che è stato stabilito da tempo, soprattutto in termini di sicurezza.

Certo è che la tensione nel Baltico è davvero alle stelle. Basti pensare che in Lituania da diversi mesi il governo distribuisce opuscoli alla popolazione su come comportarsi in caso di un attacco militare.

Prima di analizzare i probabili scenari di politica estera è importante sottolineare come l’idea dell’apertura da parte della Federazione Russa di un nuovo fronte di guerra nel Baltico, dopo quello ucraino, trovi concordi diversi esperti di geopolitica. Paul D. Miller, analista americano che quattro anni fa aveva previsto l’invasione russa in Ucraina, in un articolo del 17 novembre, intitolato How World War III could begin in Latvia, sostiene che in questo preciso momento storico, caratterizzato dal declino dell’Unione Europea, la Russia potrebbe minare l’integrità della Lettonia utilizzando consolidate tecniche di guerra ibrida.

Il modello, applicato con successo in altre aree del mondo post-sovietico, consisterebbe nel provocare una crisi militarizzata infiltrando agenti segreti nelle comunità russofone per fomentare disordini. Il pretesto, come già accaduto altrove, sarebbe la presunta difesa dei diritti delle minoranze minacciate dai governi delle tre repubbliche e la conseguente richiesta di una protezione internazionale. Nel frattempo una sedicente armata di liberazione dei Paesi Baltici, simile alle truppe mercenarie russe di LNR e DNR, le repubbliche separatiste del Donbas, farebbe il suo ingresso in scena con una serie di attentati a note personalità politiche innescando uno scenario da guerra civile.

A quel punto i governi delle repubbliche baltiche sarebbero costretti a chiedere l’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. La Russia, come già in passato, si opporrebbe a tutte le risoluzioni di questo organismo, offrendo i propri servizi unilaterali come forza di peace-keeping. Alla riunione NATO la Polonia spingerebbe per l’applicazione dell’art 5 del Trattato parlando di invasione russa dei Paesi Baltici e chiedendo l’aiuto degli altri stati membri per respingere l’offensiva militare di Mosca. Ma Francia e Germania cercherebbero di evitare in ogni modo che questo accada. A quel punto l’attenzione sarebbe rivolta agli Stati Uniti, ossia l’azionista di maggioranza della NATO. Come risponderebbe a tale scenario l’America di Trump?

La mancata applicazione dell’art 5 renderebbe di fatto il sistema difensivo della NATO privo di significato e si tornerebbe a una situazione a livello geopolitico simile a quella del 1939 con alcuni stati che sceglierebbero di allearsi con la Russia e altri, come la Polonia, che si armerebbero fino ai denti per difendersi dall’aggressione del Cremlino. Ma, se la NATO decidesse di onorare l’art 5, ciò significherebbe l’inizio di una guerra tra Occidente e Russia. Trump rischierebbe una Terza Guerra Mondiale per la difesa della Lettonia?

Gli interrogativi sollevati dal worst case scenario di Miller - scenario, va detto, tutt’altro che improbabile - non sono di facile soluzione e impongono una disamina piuttosto articolata. Al di là delle tante perplessità suscitate da Trump, personaggio a-ideologico e a-morale – così l’ha definito Leon Wieseltier, intellettuale ebreo, editore di New Republic –, è utile ricordare che negli Stati Uniti il Presidente non è un uomo solo al comando, ma il suo potere è condiviso con il Congresso e le corti giudiziarie federali. Ed è proprio all’interno del Congresso, ora a salda maggioranza repubblicana, che si evidenziano sensibilità diverse specie in tema di politica estera. La posizione di Trump, classificabile come paleoconservatrice, deve confrontarsi nel suo stesso partito con idee molto diverse, persino antitetiche.

Corrente dominante nel Partito Repubblicano prima della Guerra Fredda, i paleoconservatori, di cui Ross Perot, candidato repubblicano alle primarie del 1992 e del 1996 è l’esempio cronologicamente più vicino a noi, sostengono l’isolazionismo e il protezionismo. Nel 1991 Perot fu tra i più strenui critici del Presidente Bush, opponendosi al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra del Golfo. Secondo lo storico del conservatorismo George H. Nash, autore del saggio The Conservative Intellectual Movement in America Since 1945, la posizione in politica estera annunciata da Trump in campagna elettorale è perfettamente coerente con quella del Partito Repubblicano prima della Guerra Fredda.

Semplificando, i repubblicani sarebbero diventati interventisti a causa della minaccia rappresentata prima dall’Unione Sovietica e poi, dopo l’11 settembre, dal mondo islamico. Verrebbe allora da chiedersi se l’attuale situazione in Europa e in Medio Oriente, profondamente mutata a partire dal 2008 con la guerra prima in Georgia, poi in Ucraina e con l’appoggio di Putin ad Assad in Siria, non presenti una criticità tale da giustificare anche oggi un approccio interventista. È ciò che sostiene dall’agosto 2008 il senatore repubblicano John McCain, tra i più duri oppositori di Trump all’interno del suo stesso partito.

È bene ricordare che John McCain è stato molto critico anche nei confronti dell’ex inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, stigmatizzando più volte il suo sostegno tiepido all’Ucraina e il suo lungo temporeggiare in Siria che ha poi favorito l’attivismo militare del Cremlino.

Per comprendere l’attuale situazione è utile dunque spendere alcune parole sulla politica estera di Obama nei confronti della Russia. Se oggi Putin appare il momentaneo vincitore della partita a scacchi che si gioca in Europa Orientale lo si deve al fallimento della politica del reset voluta da Obama. Il reset non solo non ha dato i risultati sperati, consentendo alla Russia di occupare gli spazi lasciati vacanti dagli Stati Uniti, ma si è rivelato un clamoroso errore strategico. Con quella scelta, avvenuta pochi mesi dopo l’invasione russa della Georgia, l’amministrazione Obama ha sconfessato la politica estera di George W. Bush in Est Europa e ha anche tacitamente avvallato il neoimperialismo del Cremlino nello spazio post-sovietico.

L’aggressione militare in Georgia cui non è seguita alcuna sanzione, nonostante a distanza di mesi l’armata russa non si fosse ritirata dai territori occupati, come previsto dall’accordo di cessate il fuoco firmato in presenza dell’ex presidente francese Sarkozy, ha convinto Putin che fosse possibile intervenire militarmente anche in Ucraina. Cosa che è puntualmente avvenuta in Crimea e in Donbas nel 2014.

È proprio per questo motivo che, paradossalmente, gli ucraini sembrano meno preoccupati di altri dell’avvento dell’era Trump. Ai loro occhi Obama è il Presidente che, a dispetto di un voto favorevole del Congresso, si è rifiutato di fornire armi al loro Paese per difendersi dall’invasione russa. E che ha votato l’inasprimento delle sanzioni contro la Russia solo dopo l’abbattimento dell’MH17 da parte dei mercenari in Donbas.

Gli ucraini hanno capito da tempo che per contrastare Mosca possono contare solamente sulle proprie forze. Probabilmente l’hanno compreso anche a Vilnius, Tallinn, Riga e Varsavia, dove tifano timidamente per Mitt Romney nella speranza che riesca almeno a mitigare la proverbiale erraticità di Donald Trump.