Il TTIP è la prima vittima del 'virus gentista' che affligge le democrazie
Istituzioni ed economia

'I negoziati sul TTIP, di fatto, sono falliti, anche se nessuno vuole ammetterlo. Del resto, non possiamo permettere che l’Europa accetti supinamente le richieste degli USA, e sino ad oggi non è stato trovato l’accordo su nessuno dei 27 capitoli del trattato'. Con queste parole, ieri, il vicecancelliere e ministro dell’Economia tedesco, Sigmar Gabriel, ha sancito una volta per tutte la fine del più ambizioso trattato di libero scambio della storia.
Quella di Gabriel, in realtà, è soltanto una bocciatura formale. Quella sostanziale - come del resto sottolinea lo stesso vicecancelliere - è ormai da molto tempo data per scontata da chiunque ne abbia seguito anche solo vagamente gli sviluppi. La notizia, insomma, non è il fallimento del TTIP; ma che qualcuno, ai piani alti, lo ammetta pubblicamente.
Si è spesso detto, negli ultimi mesi, che la fine del TTIP sarebbe stata una logica conseguenza dell’eventuale elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ebbene: oggi possiamo dire con certezza che si trattava di una semplificazione. E non basteranno certo le smentite di circostanza di Angela Merkel a riportare il sereno su un progetto politico ormai coperto da nubi di ogni genere. Né Angela Merkel, né Matteo Renzi, Barack Obama o Francois Hollande si stracceranno le vesti per difendere il TTIP e per fare ripartire i negoziati in pompa magna, pur avendolo sempre ufficialmente sostenuto. Nulla di tutto questo. E del resto perfino Hillary Clinton - che di Trump è l’avversario politico - ha espresso perplessità sull’accordo. Il TTIP va ormai avanti per inerzia, nell’imbarazzato silenzio di una leadership occidentale debole e impaurita di fronte al tracollo di un progetto di così ampio respiro. Come si spiega tutto ciò?
Una possibile spiegazione è che il TTIP fosse davvero l’incubo paventato quasi all’unanimità da classe politica e opinione pubblica, da una parte e dall’altra dell’Atlantico. Una circostanza che, su Strade, avevamo già smentito: se c’erano motivi sostanziali per bloccare il TTIP, certamente non erano quelli agitati dalla stragrandissima maggioranza di complottisti e demagoghi che si opponevano al trattato. Anzi: pur con tutte le precauzioni del caso, il TTIP è certamente un’occasione persa. In un’Europa disperatamente alla ricerca di nuova produttività e innovazione, aprirsi al mercato statunitense sarebbe stato un possibile antidoto alla crescita asfittica che la affligge da anni e che - una volta terminata la congiuntura favorevole dettata da petrolio a basso prezzo e quantitative easing - potrebbe tramutarsi in una nuova recessione. Senza contare i benefici geopolitici di quello che sarebbe potuto diventare il capostipite degli accordi commerciali internazionali del nuovo millennio, che avrebbe costretto Cina e Russia ad accodarsi.
La seconda spiegazione, ahinoi pericolosamente verosimile, è che il ‘virus gentista’ abbia finito per contagiare profondamente le nostre democrazie. Se il compromesso diventa sempre e comunque ‘inciucio’, agli occhi dell’elettorato, va da sé che nemmeno il leader più autorevole può permettersi di difendere il più grande esercizio di diplomazia commerciale internazionale dal dopoguerra ad oggi. E a nulla può servire qualunque sforzo di trasparenza, perché in gioco c’è un tentativo di rendere masticabile la complessità di un negoziato internazionale, con tutte le sue sfumature tecniche e politiche, e la complessità politica, nel populismo mediatico, non trova alcuno spazio.
Il TTIP, probabilmente, avrebbe migliorato il mondo. Ma c’è un problema molto più grave da risolvere, in Occidente: quello di uno scollamento sempre più evidente tra chi vede nell’apertura, nella libertà e nel progresso le migliori armi per il benessere della società umana, e chi al contrario vi vede un inganno a loro danno da parte delle élites. Nel caso di specie, i primi sanno bene quali e quanti guai ha provocato, non molto tempo fa, il protezionismo; e se non troveranno il modo di spiegarlo ai secondi, saranno guai.
