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'Se l'Italia fosse costretta a rispettare le regole europee (cui essa stessa ha volontariamente aderito, ndr), potrebbe dover affrontare molteplici fallimenti bancari e infliggere pesanti perdite a molti risparmiatori ordinari, i quali possiedono fino a 250 miliardi di euro di obbligazioni bancarie. Quando la Banca d'Italia impose perdite su 750.000.000 € di debito junior come parte del salvataggio di quattro piccoli istituti di credito nel mese di dicembre, le tensioni politiche si fecero furiose'

Così Simon Nixon sul Wall Street Journal del 4 luglio scorso, a commento delle turbolenze che tornano a investire gli istituti di credito della penisola, in questi giorni seguenti il risultato del referendum britannico. Le vicende sono piuttosto note e sono già state variamente commentate, anche nei loro aspetti più grotteschi. C’è, tuttavia, un elemento più “sistemico” di questa ennesima, difficile situazione che merita di essere sottolineato, nella misura in cui essa ha tutte le caratteristiche per rappresentare l’epitome, la cifra ultima dei mali che affliggono l’Italia.

Dopo il caso Etruria, la raccolta di strumenti a reddito fisso presso il pubblico retail pare essersi ridotta in modo consistente. Da una parte, quindi, un canale tradizionalmente “facile” del funding bancario si è fatto più difficoltoso, problema potenzialmente non da poco e dalle vaste implicazioni. Dall’altra, c'è stato un salutare ribilanciamento di portafoglio per i piccoli risparmiatori, per anni “indotti”, con la corresponsabilità di una vigilanza dormiente quando non complice, ad acquistare un’enorme quantità di obbligazioni. Detto altrimenti: un passato di errori e scelte definibili solo come orrende (che rendono inoltre politicamente mortale applicare la normativa sul bail-in entrata in vigore a inizio anno); un punto di arrivo razionale, una più corretta diversificazione di investimento per decine di migliaia di concittadini; nel mezzo, una transizione destabilizzante che nessuno sa bene come affrontare - i balbettii queruli e scomposti del governo italiano in sede comunitaria stanno lì a dimostrarlo - per trovare nuovi canali di finanziamento, e in un momento in cui anche la solvibilità di molti istituti è messa in questione dalla montagna di crediti deteriorati ancora da smaltire.

Il dramma è che questo schemino, mutato ciò che c’è da mutare, è sostanzialmente replicabile per i più svariati (quasi tutti, in verità) ambiti disfunzionali del paese.

Così, le stesse banche sono detentrici (i.e. negli anni hanno comprato) di centinaia di miliardi di BTP, a fronte di una crescente pressione europea per ridurne la consistenza negli attivi (anche attraverso una nuova e diversa ponderazione per il rischio degli stessi), nel condivisibile tentativo di spezzare l’abbraccio mortale tra banche e Stati contro il quale invano si combatte da anni. Vendere il debito pubblico italiano, però, potrebbe avere conseguenze immediatamente molto negative sul rendimento dei BTP e, di riflesso, sull’economia del paese. Come arrivarci, allora?

Così, chiudere i rubinetti ai trasferimenti che sono in realtà soltanto forme di assistenza mascherata e per nulla trasparente consentirebbe di liberare risorse da destinare a molto più sagge intraprese. A memoria: i musei con una statua e 18 custodi; i 66 funzionari addetti alla gestione della casa di Pirandello; l’intera regione Sicilia; l’Atac, l’azienda dei trasporti romani, dove nonostante tutto – gli scandali, l’assenteismo, il costoso bail-out della capitale per mano dei contribuenti – il costo per vettura/km ha continuato ad aumentare, e dove sarebbero necessari migliaia e migliaia di esuberi per riportare le cose a un'almeno apparente normalità gestionale; le poste, le ferrovie; l’Ilva, dove si cerca di preservare forza lavoro a tutti i costi, anche se è pura illusione che a Taranto si possa mai tornare ai volumi produttivi di un tempo; la saga delle Province; Meridiana, sempre in bilico e oggi nuovamente all’onore delle cronache; l’uso abnorme della cassa integrazione in deroga – definita “un mostro” da Tito Boeri – per tenere artificialmente in vita realtà che non hanno nessuna speranza di riprendersi; il sempreverde Sulcis; la spesa pensionistica su PIL – anche a causa del ricorso più che disinvolto, negli anni, ai prepensionamenti quale comoda via d’uscita dalle riorganizzazioni aziendali – che non ha eguali in Occidente, in barba alla giustizia intergenerazionale e a qualsiasi possibilità di riequilibrare il welfare verso il lavoro... quale via percorrere, essendo evidenti i costi (elettorali in primis) di breve e medio periodo?

L’intermediazione dello Stato serve essenzialmente a redistribuire – e in modo crescente, da cui l’accelerato ritmo del declino – da chi produce a chi vive di sussidi e di assistenza, siano esse imprese o persone fisiche. La necessità di sostenere un simile e perverso congegno è ciò che di fatto impedisce la riduzione della pressione fiscale, soffocando la possibilità di rilancio economico. Una situazione che è appunto il prodotto di decenni di allocazione sbagliata delle risorse, oramai così consolidata da essere divenuta parte strutturale del funzionamento dell’economia nazionale.

Un caso esemplare di “video meliora proboque, deteriora sequor”, per citare il poeta. Tutti sappiamo - tanto che è persino estenuante trovarsi a dover ripetere ancora e ancora le stesse analisi - ciò che sarebbe collettivamente desiderabile, ma anche i meglio intenzionati, se intellettualmente onesti, devono ammettere che non saprebbero poi come gestire la transizione, la liberazione dalla legacy di un tale e ingombrante passato, e soprattutto la sorte delle “vittime” (con diritto di voto) che essa lascerebbe sul campo.

Anche per questo, le fibrillazioni bancarie di questi giorni, lungi dall’essere un semplice episodio, vanno al cuore del meccanismo che imprigiona l’Italia e la rende così impervia alle riforme.