paese disegno

Se c’è una cosa che ho imparato in questi primi 7 mesi di amministrazione – sono da giugno sindaco di un piccolissimo comune piemontese (Parella) – è che i tentativi di riforma degli enti locali dall’alto sono fallimentari perché rispondono tutti a tre caratteristiche:

1. sono provvedimenti pensati al centro, per riformare realtà che, nella pratica, si conoscono poco;

2. non rispondono a un disegno che abbia dei chiari obiettivi;

3. nella pratica finiscono per essere inapplicabili e sono quindi sistematicamente oggetto di deroghe e proroghe.

Questo modo di agire non fa bene né agli amministratori, che sono incentivati a non far nulla e puntare i piedi, confidando in una puntuale proroga dei termini o in una “salomonica” sanatoria ex post dei comportamenti fuori legge. E non fa bene neppure agli amministrati, che si trovano di fronte a enti locali incapaci di riformarsi e che costano sempre di più fornendo meno servizi.

La pars destruens è servita, ma la costruens come si fa? Partiamo dagli obiettivi: vogliamo che i comuni si organizzino per fornire sempre più servizi, costando meno ai contribuenti, tutti i contribuenti; non vogliamo comuni che possono applicare aliquote molto basse solo perché finanziati da sussidi ricavati dalla fiscalità generale.

Fissati gli obiettivi, vediamo la strada migliore per raggiungerli. Innanzitutto deve essere un percorso che parte dal basso, con i singoli enti locali che si aggregano su base volontaria, determinando aree omogenee che siano efficienti nel loro specifico contesto. Non è certo fissando un criterio demografico rigido da applicare a tutto il territorio nazionale che si può raggiungere questo obiettivo. D’altra parte resta tutto da dimostrare che far sparire i piccoli comuni convenga al contribuente. I piccoli comuni dell’Unione di cui facciamo parte, infatti, hanno un costo degli amministratori praticamente pari a zero (nessun sindaco e nessun assessore percepisce alcuna indennità), molti servizi sono svolti in forma associata, attraverso l’Unione, e le aliquote Imu, addizionale Irpef e Tari sono più basse di quelle delle grandi città dell’area. E se andate a vedere in giro, noterete che moltissimi piccoli comuni presentano queste caratteristiche. Quindi perché cambiare?

Qualcuno potrebbe giustamente obiettare che anche oggi i piccoli comuni potrebbero autonomamente decidere di fondersi ma non lo fanno – o lo fanno poco – perché probabilmente beneficiano di trasferimenti da parte dello Stato che sussidiano la loro esistenza. Possibile. Ecco allora la proposta: eliminiamo i trasferimenti statali ai comuni – tutti – e lasciamo che gli enti locali vivano solo delle imposte che riescono a raccogliere sul loro territorio.

Se pensate che questo “sgravi” lo Stato da un ingente capitolo di spesa ricredetevi pure. il Fondo di Solidarietà Comunale è alimentato con una quota (il 38%) del gettito dell’Imu calcolata ad aliquote standard. Di questi soldi, circa 4,7 miliardi di euro, lo Stato se ne intasca subito 400 milioni e poi redistribuisce il resto ai comuni, secondo certi criteri “perequativi”. E non è l’unica tassa locale che lo Stato si intasca, visto che pure il 7,6 per mille dell’Imu sui “capannoni industriali” va a Roma.

Se dessimo ai comuni una vera autonomia fiscale – ognuno si intasca e sopravvive unicamente con i soldi che raccoglie localmente – potremmo vedere quali realtà sono davvero troppo piccole per sopravvivere ed essere efficienti e quali no. E allora le fusioni avverrebbero da sole, senza che a Roma debbano muovere un dito.

A proposito di Roma: tutto questo non potrà mai funzionare se lo Stato continua a salvare i comuni, grandi o piccoli che siano, che hanno il bilancio perennemente in rosso, magari a causa dei buchi delle loro società partecipate. Ma non credo che questi siano tutti comuni al di sotto dei 5000 abitanti, vero?