Grecia elezioni

L’ennesimo memorandum della Troika resta sulla scrivania di Tsipras, in un momento convulso di rifiuti, aperture e voltafaccia ellenici. Ma la Grecia è ufficialmente entrata in default finanziario, dopo che il governo di Atene ha deciso – temporaneamente? – di ritirarsi dal tavolo delle trattative con BCE, Commissione Europea e FMI. Pertanto, è già game over

Ora vediamo come si proseguirà fino al voto (e soprattutto dopo il voto) di domenica. Era davvero tanto inaccettabile l’ultimatum della Troika? Come spesso accade, in medio stat virtus. Ma la Troika ha fatto un colossale buco nell’acqua, ancora una volta. Vediamo perché.

Innanzitutto, una nota comportamentale. Anziché occuparsi seriamente di cercare soluzioni ad hoc per la Grecia, che tengano conto del capitale sociale e delle specificità del contesto ellenico, per non parlare della sensibilità dei greci, la Troika ha presentato un ennesimo documento di policy di natura top-down. Nel documento si leggono toni da maestro con lo scolaretto; pare il copione di una recita a teatro, invece che un documento condiviso, che getti le basi per lo sviluppo di un Paese.

Veniamo al dunque. Ciò che serve alla Grecia da qui ai prossimi decenni è una crescita economica sostenuta. Il motivo è semplice: sul loro debito, i Greci pagano interessi in media del 2,4%, grazie alle particolari condizioni concesse dai creditori. Pertanto, per assicurare la sostenibilità finanziaria, occorre una crescita annua intorno al 2,5-3% del PIL.

Tuttavia, la Troika sembra aver dimenticato le basi fondamentali della macroeconomia. La conoscenza dell’economia dell’offerta è sufficiente (ma neanche troppo buona), però si è smarrita traccia di quella della domanda. In sintesi, il documento di 10 pagine contiene misure fiscali fortemente recessive, unite ad un baldanzoso cocktail di riforme strutturali che vorrebbero aprire il mercato alla concorrenza, ma che, in sostanza, mescolano indistintamente misure sacrosante (come l’aumento dell’età pensionabile) con altre alquanto bizzarre (la privatizzazione dei gioielli di famiglia in tempi di magrissimo incasso, con gli avvoltoi stranieri pronti a colpire: un autentico suicidio di finanza pubblica e uno schiaffo alle generazioni future).

Qualunque studentello del primo anno di economia sa bene che difficilmente misure recessive possono portare alla crescita. Ma non basta: non tutte le misure strutturali sono appropriate in ogni contesto. E, quando anche si rivelassero adeguate, tendono a produrre effetti apprezzabili nel medio e lungo periodo. Possono rappresentare un toccasana in un contesto di domanda adeguata, ma potrebbero produrre effetti nulli, o persino controproducenti, in periodi di recessione. E anche l’ordine con il quale le si introduce conta.

Con una metafora, si potrebbe dire che la Troika suggerisce alla Grecia come truccare il proprio motore per farlo passare da una 500 ad una Ferrari in dieci mosse: posto che funzioni (e c’è da dubitarne), si sono dimenticati della benzina. Ma un Paese è come un’automobile che non deve fermarsi mai, pena il baratro. E ora la Grecia è ferma. È possibile che un documento così importante siglato da autorevoli organismi internazionali sia ancora prigioniero del dualismo tra keynesismo e neoliberismo, e incapace di contemplare soluzioni equilibrate e non ideologiche?

Immergendoci nel memorandum, ci accorgiamo che i punti sono proprio 10, ciascuno molto denso di specifiche. È plausibile ritenere che un tale faraonico programma non sarebbe realizzabile neppure da un dictator plenipotenziario. Figuriamoci in un Paese come la Grecia, che in quanto a instabilità politica fa concorrenza persino al Belpaese. In termini macroeconomici, inoltre, tale programma appare piuttosto schizofrenico.

È come se, constatata la malattia, il medico curante impazzisse improvvisamente e si mettesse a prescrivere farmaci di ogni sorta. Un cortisonico subito, tra un’ora un antinfiammatorio, tra due uno sciroppo, poi un antitumorale, infine due pastiglie di ansiolitico e, perché no, un bel carico di antidolorifici. Nel frattempo, il paziente è morto da un pezzo. Negli ospedali la chiamano malasanità. Questa, invece, è schizofrenia economica, che cozza contro la letteratura più basilare.

Nello specifico: come si fa a chiedere ad un Paese con la disoccupazione ben oltre il 25% di registrare avanzi primari crescenti dell’1%, 2%, 3% e 3.5% dall’anno in corso al 2018? E, simultaneamente, a chiedere un regime IVA sul cibo al 13% e – chissà perché – solo al 6% su libri e teatri? Siamo in Grecia, va bene, ma credere che i cittadini si cibino del Fedone a colazione, delle Baccanti a pranzo e dell’Odissea a cena suona quantomeno azzardato. Altro che botte piena e moglie ubriaca. Qui chi ha bevuto troppo è l’oste.

Risparmio ai lettori il resto della lista per brevità (e pietà). Che fare, dunque? Ha ragione Tsipras? Certo che no. Tuttavia, occorre chiedersi se non sia arrivato il tempo per le istituzioni europee di togliere agli incantatori di serpenti il monopolio delle piazze e dei cuori, perché la Storia ci chiede di fare l’Europa. Ma, soprattutto, gli Europei.