Toh, il CETA e il libero scambio fanno bene all'Italia
Innovazione e mercato
Sono usciti i dati dei primi tre mesi dell’entrata in vigore del CETA, l’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e il Canada, e sono tutti positivi. In un solo trimestre l’export italiano è cresciuto del 9%; ad averne i maggiori benefici è stato il settore agroalimentare, con vino e prodotti finiti in primis, per un ammontare di oltre 800 milioni di Euro. D’altro canto, l’invasione dei grani canadesi non è avvenuta: si registra infatti un calo del 35% tra ottobre e dicembre 2017 delle importazioni, in un trend decrescente ormai iniziato da diversi anni.
Il mercato libero e regolamentato, quindi, certifica crescita e qualità e fa bene all’Italia - eccellenza del mangiare bene – prima che all’Europa, contrariamente a quello che dicevano gli innumerevoli detrattori del CETA, che divulgavano paure infondate tra i consumatori “ci invaderanno con le carni bombate, con il grano pieno di pesticidi” e allarmavano i nostri produttori “si metteranno a vendere Parmesan”.
Niente di tutto questo. Non solo il CETA è un notevole passo in avanti per tutelare davvero tutti i marchi igp italiani, contrastare i prodotti “italian sounding” e promuovere il made in italy in Canada; ma è anche una grande opportunità di crescita e sviluppo per tutte le nostre aziende, soprattutto le più piccole, che quotidianamente si adoperano per creare eccellenza e che oggi hanno un canale di vendita in più, una vetrina internazionale senza dazi e restrizioni ma con regole pulite e chiare.
E allora? E allora avevamo ragione noi. Noi del libero mercato aperto e regolato, noi che alle scorse elezioni siamo arrivati così vicini alla fatidica quota del 3% senza raggiungerla, ma che non ci siamo fermati un attimo nel raccontare i benefici del commercio, le opportunità di crescita e benessere di una Europa forte e unita, gli accordi che fanno bene all’economia e male agli eserciti. E nonostante in Italia abbiano vinto quelli della chiusura, noi non arretreremo di un millimetro, ma anzi, ci struttureremo, ci allargheremo, andremo a bussare alle porte della gente, spiegheremo loro che i dati e la realtà ci danno ragione, che le paure non vanno alimentate ma annientate con luce della razionalità e delle evidenze.
Viviamo un periodo paradossale in cui le élites sono accusate di aver perso il contatto col paese reale, mentre il paese reale sembra aver perso il contatto con la realtà. Restiamo convinti che ricostruire questo secondo legame sia condizione prioritaria e necessaria anche per ricostituire il primo. Perché a nulla può servire una classe dirigente che, per cercare di mantenere un effimero consenso popolare, scelga coscientemente di ignorare la realtà fattuale. La politica deve essere gestione degli avvenimenti e non può limitarsi ad essere condizionamento delle masse (sempre più virtuali e fugaci).
A chi ci chiede di ripartire rispondiamo quindi che non ci siamo mai fermati, ma continueremo più convinti di prima. Perché in questi giorni stiamo assistendo a un pericolo ulteriore: un adeguamento conformistico da parte di pezzi di società tradizionalmente considerati “establishment” alla nuova vulgata che ha prevalso nelle ultime elezioni. Lotteremo contro la falsa logica del “guai ai vinti” soprattutto quando corrisponde al “guai ai fatti”. E ci sono momenti in cui essere minoranza è compito ancora più nobile e necessario della maggioranza (di certo in casa liberaldemocratica non ci manca l’esperienza da questo punto di vista).
Dobbiamo combattere soprattutto contro una mentalità della sconfitta che vorrebbe per l’Italia la fuga dal campo da gioco come unica possibilità di salvezza, laddove invece ha le carte per vincere. Di fronte alle malattie immaginarie che si sommano (purtroppo oscurandole) alle malattie reali la cura della realtà resta l’unica soluzione percorribile per il Paese. Einstein disse che i fatti hanno la testa dura; noi aggiungiamo “perfino più dura di quella di Salvini”. E siamo pronti a dar loro una mano.