Concorrenza

Sembrava che il pressing di Calenda potesse finalmente bastare per far andare in porto, dopo due anni e mezzo, il ddl Concorrenza. E invece no. Dopo 850 giorni dalla sua presentazione e una serie impressionante di modifiche ed emendamenti, il provvedimento torna al Senato.

Dentro il Pd giurano che sarà comunque approvato entro l’estate, con un voto di fiducia entro la fine di luglio. Ma il problema non è (più) soltanto questo. Non solo perché di provvedimenti che promuovano la concorrenza - lo dice la legge - il governo dovrebbe farne uno all’anno; ma soprattutto perché la sua approvazione sarebbe soltanto una vittoria di Pirro, che non basterebbe affatto a nascondere l’enorme idiosincrasia della nostra classe politica verso la libertà economica.

Chi scrive non ha dubbi sul fatto che Matteo Renzi, le principali menti economiche del Pd, Carlo Calenda e diversi parlamentari in carica siano consapevoli dell’importanza di introdurre ventate di concorrenza nell’economia per il futuro del nostro Paese. Ammesso e non concesso che chi scrive abbia ragione, com’è possibile, allora, che figure politiche e istituzionali così rilevanti non riescano a portare a casa nemmeno un risultato largamente inferiore a qualunque aspettativa, come sarebbe l’approvazione di questo primo ddl Concorrenza depotenziato da 850 giorni di travaglio parlamentare?

La ragione più ovvia è quella, per così dire, istituzionale. Derivante, da una parte, dal forte potere di ricatto che - a maggior ragione in assenza di ogni regolamentazione e trasparenza - possono esercitare i diversi gruppi di interesse e rent-seekers su un provvedimento simile. È la tirannia delle minoranze, teoria elaborata da James Buchanan: gruppi piccoli e omogenei, accomunati da un interesse forte, tendono ad essere più efficaci nel fare pressione politica e nel fornire sostegno politico rispetto a grandi gruppi con interessi eterogenei. Ma derivante, anche, dall’inefficienza del nostro sistema di governance a livello centrale, di cui il bicameratismo perfetto è soltanto la punta dell’iceberg.

I checks and balances, specialmente nel rapporto tra governo e parlamento, sono tali da condurre a una vera e propria patologia indecisionista, che si manifesta in direzioni opposte: da una parte, per portare a casa qualunque riforma di un certo peso i governi sono costretti a imporre il voto di fiducia, pur in assenza di qualunque reale necessità di merito; dall’altra - e lo abbiamo sperimentato con chiarezza, di recente, col caso Flixbus - basta una manciata di parlamentari a mettere a tacere le (ipotetiche) ambizioni del segretario del partito di maggioranza degli ultimi tre governi e del ministro dello sviluppo economico in carica.

La ragione istituzionale, però, ne tradisce al suo interno un’altra, stavolta politica. Cioè che, volenti o nolenti, all’interno del Pd (così come di ogni altra forza politica oggi presente nell’arco parlamentare) la concorrenza rimane pur sempre soltanto uno dei tanti criteri con cui misurare le proprie scelte di politica economica. Il fatto che Renzi si schieri apertamente per alcune libertà economiche, lungi dall’essere una buona notizia, diventa allora anzi una triste conferma del fatto che il Pd non è e non potrà mai essere un partito mercatista, se non basta l’opinione di un segretario eletto col 70% dei voti poco più di un mese fa a mettere al sicuro riforme timide - come ciò che è rimasto del ddl Concorrenza - senza che parlamentari della stessa maggioranza ci rimettano le mani.

Ben vengano, allora, i virus liberali e pro-concorrenziali dentro organismi largamente statalisti. Ma, forse, ciò che servirebbe ancora di più è un vero e proprio partito della concorrenza, capace di non scendere a compromessi, su questo tema, né con il tic welfarista e iper-regolatore tanto diffuso nel Pd, né con il ‘sovranismo economico’ del centrodestra.