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Alla base del cosiddetto “referendum sulle trivelle”, per il quale si voterà il 17 aprile, ci sono una buona intenzione e una cattiva illusione. La buona intenzione è quella di chi vorrebbe sostituire l’energia prodotta da fonti di origine fossile con energia rinnovabile, la cattiva illusione - cattiva come ogni illusione, perché pericolosa - è quella che pretenderebbe che sia possibile farlo da subito.

Nella realtà le cose non stanno così. Se i fautori del referendum dovessero prevalere, se le concessioni in scadenza non dovessero essere rinnovate, la quota di energia prodotta da quelle attività estrattive non verrebbe sostituita da altrettante pale eoliche o pannelli solari, ma da altrettanto gas naturale o petrolio proveniente da altre parti del mondo. Quale sarebbe il vantaggio ambientale? Nessuno, a fronte di molti inconvenienti.

Il trasporto di idrocarburi non è una attività neutra rispetto all’ambiente. Eliminare piattaforme di estrazione la cui concessione è stata emessa a fronte di una analisi rigorosa di impatto ambientale per sostituirle con un aumento proporzionale dell’andirivieni di petroliere nei nostri porti non sarebbe una operazione sensata.

E poi le conseguenze politiche: una minore autosufficienza energetica aumenterebbe la nostra dipendenza dai paesi fornitori, dalla Russia prima di tutto. Senza che vi sia neanche un reale beneficio ambientale, e a fronte di un considerevole danno economico e occupazionale, per quale ragione dovremmo concedere un simile vantaggio ad un altro paese, ben sapendo che Putin usa con estrema disinvoltura il “rubinetto” delle forniture di gas come arma di ricatto geopolitico? E’ proprio necessario fare cose stupide nell’illusione - molto italiana - di essere più intelligenti degli altri?

C’è poi il problema culturale, che non è da meno. Chi, tra i sostenitori del Sì al referendum, ammette la portata limitata del vincolo alle estrazioni - come detto riguarderebbe solo il rinnovo delle concessioni in essere a meno di 12 miglia marine dalla costa - tende però a sottolineare l’aspetto simbolico di un eventuale successo, un “primo passo” verso un’obbiettivo di più ampia portata. Ecco, si tratterebbe sì di un primo passo, ma in una direzione clamorosamente sbagliata.

Stabilire una linea di demarcazione “geografica” tra ciò che è sostenibile e ciò che non lo è - le 12 miglia dalla costa, appunto - risponde a un approccio fideistico e superstizioso ai problemi ambientali, che ne rifiuta la complessità e ne promuove la non-soluzione irrazionale in cambio di una comoda rimozione - occhio non vede, cuore non duole. Un approccio che è parte stessa del problema e non della sua soluzione. La demarcazione giuridica delle acque territoriali non aggiunge e non toglie nulla all’impatto ambientale di una attività estrattiva, impatto che deve essere valutato caso per caso, anche in occasione del rinnovo delle concessioni, per essere valutato seriamente. Ci saranno estrazioni al di là delle 12 miglia che sarebbe meglio non fare, così come ce ne sono al di sotto di quel limite - basti pensare a Ravenna - che non c’è alcuna necessità di interrompere.

Anche il referendum contro le "trivelle" - già in questa definizione semplicistica e nel fatto che sia ormai stata accettata da tutti è racchiuso il senso strumentale del quesito - è il frutto di questa pericolosa tendenza a disconoscere il ruolo sociale e lo statuto morale del sapere tecnico e scientifico, e a sostituirlo con atti di fede indimostrati e indimostrabili, con suggestioni che “suonano bene” ma che non significano nulla.