Matteo, diversamente renziano
Editoriale
Il renzismo è un fenomeno politico vero anche (e forse soprattutto) nei suoi aspetti più finti e recitativi, spettacolari e iconografici, retorici e super-politici. Da questo punto di vista, la leadership di Renzi è davvero berlusconiana, nel senso dell'invenzione di un immaginario politico prêt-à-porter e dell'ossessiva professione di diversità e di semplicità. Oggi la candidatura di Renzi è necessitata dall'esigenza di far riemergere un PD pericolosamente assestato sotto la linea di galleggiamento. Ma lo scorso anno, di questi tempi, il suo assalto al cielo delle primarie per la premiership aveva dato una misura ancora più esatta e politicamente interessante della sua forza, che si era infranta contro la somma delle infinite debolezze della sinistra, da cui sortì il clamoroso suicidio elettorale di Bersani.
Oggi Renzi è per il PD come il gatto dell'aforisma di Deng Xiao Ping – non importa di che colore sia, l'importante è che acchiappi il topo. Però dai colori cangianti del gatto Renzi non si può prescindere, né dalla dissimiglianza tra la strategia adottata nel 2012 per rompere l'unità "sovietica" del partito e quella (uguale e contraria) utilizzata a meno di un anno di distanza per incollare i cocci di un Pd frantumato dalla debacle elettorale.
Dal punto di vista culturale, quello della Leopolda 2013 sembra un Renzi più prodiano che blairiano, tatticamente rifluito nel mainstream di sinistra e assai meno incline allo scandalo e alle prove di concretezza. Nel suo discorso finale, ieri il sindaco di Firenze ha declamato l'indice (Italia, Europa, lavoro, educazione...) di un libro ancora tutto da scrivere. Un discorso di grande mestiere, ma di poco contenuto, con qualche lampo (sulla riforma della giustizia, sulla malintesa difesa dell'italianità...), ma senza alcuna vera innovazione programmatica.
Era prevedibile che la sua proposta, dovendosi imporre anche dentro le mura del PD e non solo tra gli elettori del centro-sinistra, meglio si confacesse alle caratteristiche (e alle idiosincrasie) della base elettorale chiamata a incoronarlo? Forse era prevedibile, come pure che Renzi, che non ha abbastanza uomini per conquistare il partito "in basso" oltre che "in alto" e poco si fida delle primarie intrapartitiche, scegliesse di adattare la sua battaglia maggioritaria nazionale all'organizzazione feudale dei cosiddetti territori, dove il rottamatore ha preferito cooptare, piuttosto che sfidare i potentati locali (dal Piemonte di Fassino, alla Puglia di Emiliano).
Però il risultato di questa strategia è un candidato diversamente renziano, col vento in poppa, ma con meno colpi in canna, molto più conforme del difforme "berlusconiano" che meno di un anno fa stava per conquistare la guida della sinistra contro tutto, contro tutti e soprattutto contro il luogo-comunismo di sinistra. Se questo aggiustamento convenga a Renzi, al Pd e all'Italia, lo scopriremo presto, ma non l'8 dicembre.