Gaza, la Shoah e la crisi della ragione in Italia
Diritto e libertà

Quando la politica trascende la mediazione e si cala nel fervore della militanza ideologica, il dibattito pubblico rischia di smarrire le necessarie sfumature e la rigorosa aderenza alla verità storica. La tendenza a mobilitare categorie emotive e paragoni estremi per condannare l'avversario finisce per contaminare la sfera della riflessione politica.
È in questo clima di giudizi predeterminati e di militanza polarizzata che si rende indispensabile un esercizio di lucidità concettuale, volto a distinguere senza esitazioni l’orrore assoluto del genocidio dall'efferatezza di un conflitto armato contemporaneo, per quanto devastante. Solo una grammatica morale precisa può arginare la retorica e illuminare la vera natura degli eventi storici e bellici.
L'impulso umano a circoscrivere l'orrore tramite la comparazione storica è comprensibile, ma in certi abissi del male, ogni parallelismo rischia di risultare una profanazione gnoseologica. È imperativo stabilire una distinzione netta tra la Shoah e il giornaliero massacro in atto a Gaza. Si tratta di discernere l'intenzione genocida, ontologicamente determinata, dalla tragedia condizionata da un conflitto asimmetrico.
La Shoah, nella sua terrificante unicità, fu l’attuazione di un progetto epurativo e metafisico. Il nazismo non ambiva a sconfiggere militarmente il popolo ebraico; il suo scopo era la sua totale cancellazione biologica e culturale dalla faccia della Terra. L’ideologia nazista sanciva che l’esistenza stessa dell’ebreo era il crimine da estirpare. In questo abisso della morale e della logica, la morte era un destino programmato, ineluttabile e incondizionato.
Gli ebrei erano vittime designate, la cui eliminazione non era soggetta a negoziazione, riscatto o atti di resa. Le infrastrutture di sterminio erano industrie della morte, il cui funzionamento prescindeva da qualsiasi azione o inazione delle vittime. Nessun gesto di sottomissione o di resistenza avrebbe potuto arrestare la macchina genocida, poiché il male era il fine ultimo, non un mezzo. La Shoah si erge così come il paradigma dello sterminio totale, un buco nero della storia in cui l'obiettivo era l’annullamento dell’altro in quanto tale.
In netta e cruciale opposizione a questo abisso di annullamento, il conflitto in atto nella Striscia di Gaza si svolge su un registro tragico, ma ontologicamente diverso. La sofferenza indicibile dei civili palestinesi è il risultato di una dinamica militare complessa, che rimanda a responsabilità morali distinte. A differenza dell'annientamento nazista, l’attuale escalation di violenza possiede una sua condizionalità.
La cessazione delle ostilità è stata ripetutamente legata al rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas. Questo fatto evidenzia la natura di negoziato coercitivo sotteso al conflitto: la strage è, in larga misura, ostaggio di un atto che avrebbe potuto disarmare immediatamente l'operazione militare, cioè il rilascio incondizionato degli innocenti. La possibilità di arrestare l'ecatombe, pur remota e complessa, è legata a un'azione di disinnesco da parte di chi aveva dato il via alla crisi, un concetto estraneo alla logica monolitica e inarrestabile della Shoah.
Confondere queste due manifestazioni di orrore è un fallimento sia storico che etico. L'Olocausto rappresenta l'abisso dell'intenzione di annullamento dell'altro; la tragedia di Gaza rappresenta la sofferenza insopportabile di un popolo intrappolato nella morsa di un conflitto armato. Il dovere di ogni coscienza lucida è riconoscere la singolarità del male assoluto della Shoah, senza per questo diminuire la necessità di agire con urgenza per fermare il disastro umanitario a Gaza.
La necessità di questa distinzione gnoseologica non è mai stata così urgente, specialmente nel panorama politico e intellettuale italiano, intrappolato da un estremismo militante che privilegia la narrazione ideologica sulla complessità dei fatti. La fretta con cui taluni attori politici e opinionisti abbracciano narrazioni univoche, o la loro parzialità epistemica nel condannare solo un lato del conflitto, riflette una profonda crisi della ragione analitica.
Si assiste a un fenomeno dove la verità storica e giuridica viene sacrificata sull'altare della faziosità politica e della cecità ideologica. Questa tendenza non solo rende solo un cattivo servizio alle vittime di ogni conflitto, ma erode la capacità critica di affrontare problemi complessi senza ricorrere a semplificazioni manichee. Il dovere di ogni intellettuale e di ogni figura pubblica, in questo frangente, dovrebbe essere quello di resistere alla sirena della militanza e di insistere sulla necessità morale e analitica della distinzione, onorando la memoria di ogni dolore e di ogni vittima senza mai confonderne l'essenza e la matrice storica.






